Cronaca

Happycracy, la dittatura della felicità

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JAAP ARRIENS / NURPHOTO

Come stai? “Benissimo, grazie”. Mai un dubbio. Un’incertezza. Mai ammettere debolezze. Sempre sorridenti. Felici & contenti. Ma solo all’apparenza. In verità, come singoli, collettività e socialmente siamo vittime dell’Happycracy. Una sorta di “dittatura della felicità”, dell’esser contenti a tutti i costi. Costi quel che costi. Segno distintivo? Il sorriso smagliante. E sicuro. Felici ovunque. In tutti i luoghi. Dal posto di lavoro ai criteri della politica, dalle relazioni personali fino a spingerci alla vita psichica, interiore. Dal politically correct all’happy correct? Un modo d’essere. E di porsi. O di auto-imporci. Al pari di un’ideologia, la nostra. Quella dei tempi in cui viviamo e nei quali siamo immersi. Meglio, sprofondati.

Ma l’Happycracy è anche il titolo di un saggio dello psicologo Edgar Cabanas e della sociologa Eva Illouz pubblicato da Codice e recensito da la Repubblica il 21 scorso, pagine culturali, attraverso un’intervista ai sui autori. I quali sostengono che oggi “la ricerca della felicità è insaziabile e implica un grave paradosso: la felicità, la cui vocazione sarebbe di realizzare un’identità sviluppata e una vita soddisfacente, è costretta a generare un racconto di mancanza che colloca gli individui in una posizione in cui qualcosa è sempre mancante: se non altro perché una felicità assoluta, o uno sviluppo personale completo, resteranno irraggiungibili”. E tutto ciò ha finito con il creare una tipologia di “cacciatori di felicità”, di “happycondriaci” fissati con “il proprio sé e preoccupati di cancellare ogni macchia della loro vita”, presente e futura.

Ma in questa continua ed esasperata ricerca dell’essere felici personalmente finisce che “perdiamo la capacità di impegnarci per altro oltre che per noi stessi. Perché è un concetto individualistico e la sua ricerca produce uno stile di vita ossessivo in cui l’unica preoccupazione è per la nostra vita psichica”. Per esempio prendiamo la felicità sul posto di lavoro. Bene, Cabanas e Illouz raccontano che essa è diventata “una strategia utile per giustificare implicite gerarchie organizzative di controllo e la sottomissione alla cultura aziendale”.

È in verità un paradosso perché, “se la felicità al lavoro promette maggiore responsabilizzazione ed emancipazione dal controllo aziendale, la realtà mostra come promuovere la felicità abbia ottenuto il contrario”. Nel senso che “è comoda per spingere il livello di responsabilità verso il basso, rendendo gli impiegati più responsabili sia del proprio successo o fallimento che di quello aziendale. Ed è stata un’alleata per ottenere maggiore impegno e risultati dai lavoratori, in cambio di riconoscimenti irrilevanti” spiegano i due autori. E va da sé che ciò che rende felici e appagate le aziende non necessariamente corrisponde con ciò che rende felici i lavoratori. Anzi, tutt’altro.

La categoria più appagata e felice? Gli adolescenti. Perché per lo loro la condizione della felicità ha finito con il diventare un imperativo categorico, sostengono i due studiosi. Nel senso che “Devono a ogni costo essere e mostrarsi felici e questo supera qualunque frontiera culturale, sociale e razziale: permea le nuove generazioni in modo indiscriminato. C’è una richiesta opprimente di creare e poi comunicare via social una versione di sé solo positiva”, dichiarano Cabanas e Illouz.

Conclusione? Forse bisognerebbe essere meno ebbri di felicità. Sarebbe meglio per tutti. Anche socialmente. Come spiegano i due autori e studiosi di psicologia dei comportamenti, “la rabbia può portare a scelte distruttive, infliggere umiliazioni, ma permette di sfidare l’autorità e di rafforzare i legami interpersonali davanti a ingiustizie o minacce condivise. Gli scienziati della felicità dipingono frustrazione, risentimento e odio come fallimenti nella formazione della psiche, ma sono emozioni fondamentali per la costruzione di dinamiche sociali quali i movimenti collettivi e la coesione dei gruppi”.

“Tant’è che “l’ideologia della positività diventa così uno strumento politico conservatore”, sostengono i due autori. Quasi una costrizione. E allora: felici ma schiavi, infelici ma liberi…? A voi la scelta.  

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