Cronaca

“Cari ragazzi, ho vissuto l’inferno. E ho visto l’impossibile, vi assicuro”

"Cari ragazzi, ho vissuto l'inferno. E ho visto l'impossibile, vi assicuro"

“Mi raccomando ragazzi: qualsiasi cosa accada, siate uomini e non perdete mai la dignità”. Queste parole furono pronunciate dal papà di Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz scomparso a 91 anni a Roma l’8 dicembre 2019, quando si trovò rinchiuso con tutta la famiglia nel carcere di Regina Coeli. L’arresto era avvenuto la sera del 7 aprile del 1944, a causa della denuncia di un italiano che collaborava con le Ss e che, in cambio, ebbe un compenso di 5000 lire. Furono presi in sette (la nonna era morta poco prima dell’arresto) mentre stavano celebrando la Pasqua ebraica: due ufficiali armati come per una azione di guerra, entrarono e diedero 20 minuti di tempo alla famiglia per raccogliere qualche effetto personale.

“Non perdete mai la dignità”. La dignità? Anche quando si è vissuti all’inferno si può mantenere, nonostante la paura, la fame, il freddo, le umiliazioni, la morte che ti passa accanto ogni minuto. Come quella volta in cui un ufficiale tedesco uccise senza motivo un amico che gli stava accanto: “fu il mio primo incontro con la morte” raccontò Terracina in un incontro con gli studenti di scuole medie e superiore nell’aprile 2018. Il continuo richiamo alla dignità è un pugno nello stomaco per i ragazzi accorsi a casa dell’anziano superstite di Auschwitz, in occasione di “Zikaron Ba Salon”, la memoria nel salotto, iniziativa nata nel 2010 in Israele e organizzata a Roma dal Centro di Cultura Ebraica. Si tratta di un progetto che ha lo scopo di rendere consapevoli quante più persone possibili della Shoah, attraverso un incontro con un sopravvissuto nel salotto di una persona che, volontariamente, apre la casa e ospita ragazzi per raccontare l’esperienza.

L’edizione dello scorso anno vide la partecipazione di Alberto Sed, Sami Modiano, Piero Terracina, Edith Bruck e Marika Venezia (moglie del sopravvissuto Shlomò Venezia) che hanno presenziato in cinque salotti raccontando ognuno la propria storia. Nelle case sono entrati molti studenti romani ai quali, alla fine, è stato assegnato il compito di tramandare quanto hanno ascoltato e trasmetterlo alle generazioni di domani mantenendo così viva una memoria che non può e non deve essere dimenticata.

Piero Terracina si era seduto ad un tavolo, davanti ai giovani della scuola media Celli e dei licei Russel e Democrito. Con lui, c’erano anche Noemi Di Segni, dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma. Terracina era come un nonno che stava raccontando una storia, la Storia. I ragazzi si erano accovacciati a terra o sulle sedie, silenziosi, attenti. Parlava dolcemente Terracina, e questa dolcezza lo accompagnò per tutto il discorso, anche quando evocò momenti terribili omettendo particolari tremendi perché non servono: è talmente evidente e sentito il suo dolore che ogni parola in più non farebbe altro che aumentare la sofferenza. Ha ripercorso la nascita e la diffusione delle famigerate leggi razziali: “Tra le tante cose che non potevamo fare – spiega – c’era il divieto di avvicinarsi alle coste. E quindi non potevamo andare al mare. Ma perché – si chiede – che avevamo fatto di male? Nemmeno un bagno al mare. Ma noi trovammo il modo di andare a Fregene. In una spiaggia privata. E passavamo giornate belle lì, nonostante tutto”.

“Il momento più doloroso? Quando fui cacciato da scuola”

E ha ricordato che prima di sprofondare nell’abisso di Auschwitz, “uno dei momenti più dolorosi fu quando venni cacciato da scuola. Ero ebreo e per le leggi razziali non potevo più frequentare una scuola pubblica. Ma io con i miei compagni stavo bene, anche la maestra mi voleva bene. Ma dovette dirmi di uscire dalla classe. Avevo meno di 10 anni, dovevo fare la quarta. Quel giorno tornai a casa da solo, piangendo, ero disperato. Ma che avevo fatto di male io? A casa mia ci veniva spiegato che lo studio era importante, mamma ci seguiva molto nei compiti. Ma io dovevo andare via da scuola. Si può essere disperati a dieci anni? Sì, si può essere”.

Continuò gli studi in una scuola ebraica. E a questo punto, Terracina iniziò a raccontare dei nuovi amici che lo accolsero, lo protessero, racconta del preside, non ebreo, “mandato a controllare cosa facessero i nemici della patria” che li esortava a continuare a studiare e che erano come tutti gli altri ragazzi, non una razza inferiore.

L’inferno di Auschwitz

Terracina raccontò delle tante occupazioni che svolse il padre, cacciato dal suo posto di lavoro e che si era dovuto adattare. La famiglia originaria era composta da otto persone e lui fu l’unico a tornare dall’inferno: “sì ragazzi, io sono stato all’inferno” disse commuovendosi. L’inferno, manco a spiegarlo, è quell’emanazione immonda che si chiama Auschwitz. Il luogo dove oggi vengono condotte le scolaresche nei viaggi della Memoria per prendere atto di quello che è stato, della tremenda e lucida pianificazione di uno sterminio voluto dal seme dell’odio. Un luogo da dove oggi, quando esci, ti senti diverso, cambiato.

Il solo scricchiolare della ghiaia sotto i piedi, la vista del binario che termina nel campo, ti fa venire la voglia di uscire immediatamente. Ma poi resisti e vai avanti, vedi e immagini. Terracina racconta di come viveva “sereno” (per quel che poteva) nonostante le leggi razziali, evoca spesso esempi di solidarietà. La parola “solidarietà” verrà pronunciata molte volte nel suo salotto: vuole essere un richiamo.

“La solidarietà – disse – è fondamentale in certe situazioni di disagio. è uno dei più grandi valori della società. Come si fa a vivere senza la solidarietà? Anche oggi, come allora, è fondamentale”. E fra gli esempi, cita un certo Franco Baldini che gestiva un campetto di calcio. Questo signore chiudeva un occhio e lasciava lui e i suoi amici giocare a pallone perché agli ebrei era anche vietato giocare a pallone mentre, invece, quasi tutti i ragazzini adorano improvvisare partitelle.

E ricordò la donna che vendeva castagne sul ponte in centro e che sapendo che gli ebrei dovevano dare subito 50 chili d’oro per non essere deportati, si sfilò gli orecchini che aveva per dare un contributo. Torna ancora la parola solidarietà , quando Piero spiega che perse la suola di una scarpa nel campo di concentramento di Fossoli prima di salire sul treno che poi lo condurrà all’inferno. È un ragazzino che non ha più le scarpe ed è disperato ma gli viene in soccorso Mario che dalla baracca gli porta un altro paio di scarpe per fortuna del numero giusto e che gli permettono di camminare con meno problemi. A quel Mario, Piero è tanto grato. Poi c’è la vita durissima ad Auschwitz, la mamma che lo abbraccia insieme ai fratelli e dice loro che non li rivedrà più. Piero alla fine di tutto resterà solo, della sua famiglia non ci sarà più nessuno.

“Ho visto l’impossibile, vi assicuro”

Quando verrà liberato cercherà i suoi ma sarà tutto inutile. Era entrato all’ inferno dicendo che aveva 18 anni: per salvarsi ha mentito sull’età perché se ne avesse dichiarati 15, sarebbe finito alle camere a gas. Piero in quell’inferno lavorava, “la vita era tremenda e vi risparmio tanti particolari – dice con la voce rotta dall’emozione – ho visto l’impossibile, vi assicuro”. Il sole cala nel salotto di Piero Terracina, ma la sua voce arriva ancora instancabile ai ragazzi che non si sono mossi: ” Il 27 gennaio, i pochi sopravvissuti che eravamo rimasti, circa 7000, furono liberati dall’esercito sovietico.

Erano molti coloro che non erano più in grado di reggersi sulle loro gambe e si trascinavano sul terreno gelato facendo forza sulle ginocchia e sui gomiti. Molti furono quelli che morirono nei giorni successivi alla liberazione. “Non ci fu gioia al momento della liberazione. Ricordo molto bene quel giorno. Era la tarda mattinata, aprii la porta della baracca per andare a prendere un pò di neve in qualche parte del lager che non fosse troppo contaminata dai corpi che giacevano sul terreno, per ricavarne un pò d’acqua da poter bere. Altra acqua non c’era. Vidi un soldato completamente ricoperto di bianco, era solo ed aveva un mitra. Si voltò verso di me e mi fece cenno con la mano di rientrare. Comunicai ai miei compagni che i soldati dell’esercito sovietico erano entrati nel campo ed eravamo liberi. Non ci fu nessuna reazione, solo silenzio. Solo dopo qualche ora vidi qualcuno che piangeva ed altri che pregavano. Nessuno poteva gioire sapendo che molti dei nostri congiunti non li avremmo più visti. Sapevo che non avrei più trovato i miei genitori, il nonno e lo zio che in una selezione era stato scelto per la morte nelle camere a gas. Speravo di poter ritrovare mia sorella, i miei fratelli o qualcuno di loro, speranza risultata vana”.

Dieci mesi in Unione Sovietica, poi il ritorno a casa

E dopo più di dieci mesi di permanenza nell’Unione Sovietica e a Bucarest, “dopo essere riuscito ad entrare in corrispondenza epistolare con l’allora ambasciatore italiano a Mosca Pietro Quaroni che mi fu di molto conforto – prosegue – riuscii con molte peripezie a ritrovare la strada di casa. Non trovai nessuno della mia famiglia e fu di nuovo disperazione. Mi salvarono i miei amici ritrovati della scuola ebraica e due miei cugini che mi protessero e non mi lasciarono mai solo. Mi fu offerto un lavoro nel quale misi tutte le mie energie che mi consentirono in poco tempo di mantenermi e di trovare la tranquillità economica e così cominciai a vivere la mia seconda vita nella quale ho avuto tante gioie ed anche dolori come tutti. Ma il peso del passato a volte ritorna e diventa insopportabile”.

Finì qui, non aggiunse altro ma ai ragazzi disse: “Pensate con la vostra testa, non fidatevi mai dei falsi idoli. Oggi ce ne sono tanti. Le leggi razziali non furono emanate dai tedeschi, sono italiane. Quando Mussolini dal balcone di Piazza Venezia annunciò l’entrata in guerra, tutti erano contenti, gridavano, oggi quella scena la potete vedere su Internet, chissà poi quanti di tutti quelli che inneggiavano entusiasti in realtà hanno poi pagato a caro prezzo, morendo sotto le bombe. Non date retta ai falsi idoli, ragazzi. Ogni tanto ne appare qualcuno, pensate sempre da soli. Non fidatevi mai dei salvatori della patria”.

“La memoria è un filo che lega il passato al presente, non è un ricordo”

E poi concluse: ” Mi rivolgo a voi giovani perché siete voi che rappresentate il futuro e spetta a voi tramandare la memoria. La memoria non è il ricordo, il ricordo si esaurisce con la fine della persona che ricorda il suo vissuto. La memoria è come un filo che lega il passato al presente, è proiettata nel futuro e lo condiziona. Soltanto se farete memoria del passato possiamo evitare che quello che che vi ho raccontato possa tornare. Gli esecutori del massacro erano uomini; non erano affamati; non erano inferociti da mortificanti condizioni di vita; appartenevano alla nazione che era stata la più civile e progredita d’Europa. Erano persone che amavano le arti, la cultura, la natura. Erano persone che, presumo, addormentavano i figli facendogli recitare le preghiere e raccontando loro una favola. Chiediamoci allora: cosa rese possibili gli eventi incredibili?”.

“Perchè tanto odio? Vi ho raccontato che anche nelle condizioni estreme dei lager nazisti esisteva la solidarietà e l’amicizia, valori indispensabili per poter sopravvivere. Oggi la situazione è diversa, non possiamo certamente fare un paragone con quello che vi ho raccontato ma non dobbiamo e non possiamo rimanere indifferenti a quello che sta accadendo con i disperati che arrivano tra noi per sfuggire alla fame, alle guerre, alle persecuzioni, alle malattie”. E valga per sempre, “non perdete mai la dignità, qualunque cosa accada”.

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