Cronaca

A chi conviene (e a chi no) che Venezia e Mestre si dividano

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Claudia Greco / Agf

Venezia

Sì, No o astensione? Come saranno Venezia e Mestre dopo le 23, a urne chiuse, nel quinto referendum della loro storia di città unite dal 1926? Ripeteranno il mancato quanto discusso quorum fissato al 50% dell’ultima consultazione, quella del 2003? Più incognite che certezze in questa domenica di voto, dove le urne si sono aperte alle 7 del mattino.

I veneziani guardano il cielo, osservano la l’acqua, “se a crese o se a cala”. Oggi il tempo è grigio, fuori non piove, l’aria è più rigida. Il tempo, come si sa, influisce sempre, sia sull’umore che, nelle consultazioni elettorali, sull’affluenza ai seggi, che alle 12,20 è stata di 14.909 votanti su 206.553 aventi diritto, pari al 7,21%. In mattinata la marea ha invece raggiunto il livello di 76 cm, alle 12,05 salirà a 85 cm per poi scendere nel pomeriggio a 25 e risalire alle 3,15 della notte nuovamente a 75 cm. Come nella mattinata. Da questo punto di vista, la domenica si prospetta tranquilla.

Al di là delle ragioni della separazioni, “due terre, due Comuni”, quasi come in una querelle mediorientale, la verità sembra esser quella che le ragioni del Sì cercano di dare una spallata al sindaco delle due città, il forzista e uomo di centrodestra Luigi Brugnaro, nato a Mirano nel profondo entroterra mestrino e residente a Mogliano, lungo la via del Terraglio, antiche ville Venete con Villa Furstenberg, la strada che conduce a Treviso, per il quale in primavera c’è la verifica delle urne. Una resa dei conti. Un tentativo di delegittimazione strada facendo.

Brugnaro, sotto sotto, è per l’astensione. Perché il referendum vada a “cartequarantotto”, salti, imploda, svanisca nel nulla. Ma non è solo, né il solo che punta su questa evenienza. Anzi, è in buona compagnia. Lo spera anche il tre volte sindaco, il filosofo Massimo Cacciari, che insegna e vive a Milano, ma che nella casa di famiglia a San Tomà, nella stretta fondamenta che porta all’imbarcadero del vaporetto, trascorre il tempo quando si ritira a scrivere libri e saggi.  Dalla parte di chi spera che il referendum fallisca c’è però anche lo schieramento del No alla divisione tra Venezia e Mestre. Quindi gli scrittori Gianfranco Bettini, che di Mestre è stato il prosindaco nelle tre giunte Cacciari, e Tiziano Scarpa, il Pd, Forza Italia e una parte della destra, i sindacati e la chiesa locale. In mezzo, in un né aderire né sabotare, si collocano la Lega, a parte quella venetista e sempre un po’ ribelle che s’ispira ancora ai principi della originaria Liga Veneta e che è per il Sì alla separazione, e il governatore del Veneto Luca Zaia. Libertà di voto, dicono, ma se il referendum s’impantanasse non verserebbero una lacrima.

Più granitico il fronte del Sì senza “se e senza ma”. Che vende per la prima volta, secondo i sondaggi d’opinione, i veneziani della città storica, aver cambiato fronte ed essere passati massicciamente e in prevalenza dal fronte del No alla separazione delle due città a quella ineluttabile del Sì e del “divisi a tutti i costi-“.

Anche se la percentuale dei votanti è stata in calo progressivo passando dal primo appuntamento referendario del 1979 dal 79,5% al 39% per quello tenutosi sedici anni, nel 2003. Tra il Sì anche molti intellettuali di provenienza e di area di centrosinistra, come lo scrittore Antonio Scurati, che a Venezia ha vissuto per un periodo con la famiglia in gioventù, l’organizzatore di grandi eventi come la cerimonia di apertura dei giochi di Tokio 2020, il venezianissimo designer Marco Balich, il giudice Felice Casson, già deputato Pd, e il critico d’arte Vittorio Sgarbi.

Schieramento composito, dunque. Dove ormai la componente dell’umore veneziano a lasciare andare la terraferma per la sua strada e mettersi in salvo dall’acqua alta, dal turismo, dai negozi di maschere e dall’ineluttabile sorte di Disneyland sull’acqua è ormai forte, se non prevalente. Non mancano tuttavia le indeterminatezze così come gli interrogativi: di chi sarà l’aeroporto, sarà sotto la  giurisdizione di Mestre o di Venezia? E il porto? Chi si occuperà delle bonifica di Marghera dalle schifezze industriali dopo la chiusura del Petrolchimico e il suo declino industriale? A chi andranno i proventi dei trasporti usati dai pendolari delle due città – 50 mila al giorno dalla terraferma a Venezia, più 20 mila in senso inverso – nei due Comuni divisi, e come pagheranno?

Agli elettori, poi, non è stato ancora detto quali saranno i confini dei “due Stati” separati del Leone di San Marco e della Torre medioevale della città di terraferma. Ma i sostenitori del Sì affermano che le due città costrette ad un matrimonio forzato, controvoglia e contro-natura sotto lo stesso tetto, si sono annullate, sono sparite. Che Venezia è solo preda di turisti predatori e degli speculatori, vittima della rapina del Mose che le ha sottratto miliardi su miliardi di risorse che poteva utilizzare in altro modo, magari per sistemare una laguna che si presenta distrutta, mentre Mestre è solo un dormitorio, che sfrutta Venezia che negli ultimi anni ha costruito 7 mila posti letto in più per campare sulle spalle di Venezia nella quale riversa migliaia di turisti ogni giorno, lucrando guadagni.

Insomma, in una espressione riassuntiva, servono amministratori separati, dedicati, vicini alle esigenze dei due diversi cittadini o “popoli” d’acqua e di terraferma, e competenti per i fautori del Sì. Venezia e Mestre, assieme ai Comuni che s’affacciano sulla laguna devono invece essere due città in un unico Stato, meglio un’unica città a carattere metropolitano che deve essere però o perciò tutelata da una legge Speciale congrua e ampiamente finanziata. Perché, come per ogni cosa, tutti i salmi, alla fin fine, finiscono in gloria. 

Alle 23, l’esito di questo redde rationem tra il Leone e la Torre.     

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