AGI – L’unica forma di protesta consentita all’Italia sulle condizioni di pace fu quella di far sottoscrivere il trattato da un funzionario, il segretario generale della delegazione italiana presso la Conferenza di Parigi, Antonio Meli Lupi di Soragna, per non dare a esso un rilievo politico. Soragna firmò alle 11.15 del 10 febbraio 1947 nella Sala dell’Orologio del Ministero degli esteri, senza avere neppure un sigillo formale della Repubblica italiana. Sulle condizioni imposte per quella pace persino un galantuomo di specchiata onestà e rettitudine morale qual era Enrico De Nicola ebbe da ridire e dovette essere convinto con un artificio giuridico affinché firmasse come Capo dello Stato. Il prezzo della sconfitta fu assai pesante.
Dal 2007 il 10 febbraio è il Giorno del ricordo, dedicato agli istriani, ai giuliani e ai dalmati che pagarono per tutti gli italiani il disastro del fascismo e della seconda guerra mondiale. Pagarono subito nel 1943, con la prima ondata di infoibamenti, poi ancora nel 1945 con l’occupazione jugoslava e i successivi pogrom contro gli italiani, quindi con la mutilazione dei territori orientali decisa dai vincitori e il fenomeno dell’esodo dall’altra sponda dell’Adriatico, che convenzionalmente si stima attorno alle 350.000 persone. D’altronde tutte le illusioni cullate col rovesciamento di fronte e la dichiarazione di guerra alla Germania di Hitler, il 13 ottobre 1943, nonché con la cobelligeranza e la resistenza, erano cadute di fronte all’atteggiamento intransigente assunto alla Conferenza di Parigi.
Dei ventuno rappresentanti dei Paesi vincitori, solo il presidente del Governo francese Georges Bidault rivolse un saluto alla delegazione italiana. Dopo l’intenso discorso di Alcide de Gasperi del 10 agosto 1946 che avrebbe commosso anche le pietre, nessuno gli rivolse la parola quando riprese il suo posto defilato in assemblea. Gli Alleati non riconobbero a De Gasperi la scissione di responsabilità tra popolo italiano e quelle del fascismo e dei Savoia, come avevano promesso insistentemente e continuamente durante il conflitto, e valutarono con aria di sufficienza il contributo dei militari dell’esercito ricostituito e le sofferenze della popolazione civile fino alla sconfitta del nazifascismo. La firma sul trattato fu accolta in Italia da dieci minuti di silenzio, i negozi abbassarono le saracinesche, i bus e i tram si fermarono, alcuni studenti protestarono.
Nella prima conferenza di Londra De Gasperi aveva sollecitato il segretario di stato degli USA James Francis Byrnes a intavolare una discussione sulla cosiddetta Linea Wilson per tracciare il confine con la Jugoslavia di Tito, tenendo conto del fattore etnico; in tal modo la risistemazione della frontiera avrebbe assegnato all’Italia buona parte dell’Istria, con statuto autonomo per Zara e Fiume. Tito aveva dovuto ritirare con disappunto le truppe jugoslave dietro alla Linea Morgan ma le manteneva in diversi territori contesi, aveva già occupato Triste da cui era poi stato fatto andare via dagli Alleati ma non nascondeva le sue mire sulla città. Aveva proposto a Palmiro Togliatti, all’epoca ministro della Giustizia, di assegnare Trieste alla Jugoslavia e Gorizia all’Italia, e Togliatti l’aveva pubblicato sull’Unità. Una quarta linea di demarcazione prevedeva la divisione del territorio di Trieste in una Zona A a maggioranza italiana sotto controllo alleato e una Zona B a maggioranza slava sotto controllo titino, con l’Istria assegnata alla Jugoslavia. La popolazione civile italiana aveva già conosciuto i metodi delle bande partigiane comuniste jugoslave dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando il vuoto di potere scatenò omicidi, odi e persecuzioni di matrice politica e indistintamente nazionale. Questa prima prova di “pulizia etnica” coprì di sdegno e di orrore, e persino i locali Comitati di liberazione nazionale, compresi esponenti comunisti, la denunceranno. Gli italiani venivano infoibati in quanto tali.
Nel 1945 non ci sarà nessun argine alle incursioni della spietata polizia politica titina, l’OZNA, e all’orgia della vendette e delle eliminazioni. Con il terrore si innescherà il fenomeno dell’esodo forzato. Fiume e Pola si svuotarono di oltre tre quarti dei loro abitanti. Si stima che dopo il riassetto dei confini siano stati almeno 350.000 gli italiani sradicati violentemente dalle loro terre, dalle loro storie, dal loro vissuto.
I profughi che arrivavano da Istria e Dalmazia vennero insultati e dileggiati dai comunisti, accusati di essere “fascisti” perché in fuga dal modello idealizzato del socialismo di Tito, di cui però gli italiani dei territori orientali conoscevano il vero volto. A mezzogiorno del 18 febbraio 1947 i ferrovieri di Bologna fecero scattare un vergognoso sciopero contro quello che falsamente venne ribattezzato “il treno dei fascisti”, accolto con bandiere rosse con falce e martello, lanci di sassi e sputi, rovesciamento dei viveri e persino del latte per i bambini. L’Unità da tempo conduceva una campagna di stampa contro istriani, giuliani e dalmati.
Pietro Montagnani aveva scritto il 30 novembre 1946: «Ancora si parla di “profughi”’: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. (…) Non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi». Dopo l’esodo nell’Italia matrigna, i profughi conobbero anche la diaspora per diversi Paesi del mondo, per ricostruirsi o inventarsi una vita. Questo il senso del Giorno del ricordo istituito per legge, ma non solo. Il 10 febbraio 1947 Maria Pasquinelli, una maestra, appena seppe che la sua Pola era stata ceduta agli jugoslavi, aveva sparato, uccidendolo, al generale britannico Robin de Winton, comandante della guarnigione britannica locale. Trieste sarebbe tornata all’Italia nel 1954 e lo stato di fatto sulle zone di spartizione sarebbe stato sancito solo nel 1975 con il Trattato di Osimo. Era stato crudo ma realista il ministro degli Esteri inglese Ernest Bevin quando aveva risposto a Soragna, il quale aveva avuto il compito da De Gasperi di riferire agli Alleati che le condizioni di pace erano inaccettabili: «Cosa volete, la guerra è meglio non farla».
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