Pensiamo di esserne immuni, ma in realtà la nostra esistenza si regge sui pregiudizi. Siamo convinti, anche in buona fede, che giudicare gli altri senza avere troppi elementi per farlo non ci appartenga affatto. E invece, siamo proprio come gli altri, perché “l’origine di tutto è la maledetta gabbia dei ruoli sociali a cui ciascuno di noi si costringe ed è costretto in modo inconsapevole”.
E per lo stesso motivo, noi per primi sappiamo che “siamo accettati solo se rientriamo nei ranghi”. “La mia parola contro la sua”, edito da HarperCollins, è il libro che domani la giudice penale Paola Di Nicola ha presentato a Roma, dialogando con la collega Gabriella Luccioli, già presidente della prima sezione civile della Cassazione, l’avvocata Teresa Manente, in rappresentanza dei Centri antiviolenza, la scrittrice Melania Mazzucco, e il presidente dell’Anm Francesco Minisci, con il saluto istituzionale della prefetta Paola Basilone.
Si è parlato proprio del pregiudizio, che caratterizza la vita di ciascuno di noi in tutti gli ambiti, e la novità è che ad affrontare il tema è una magistrata, da sempre in prima linea contro gli stereotipi, che esprime il suo punto di vista da un luogo che nell’immaginario collettivo è solitamente visto come sinonimo di obiettività e verità (quantomeno giudiziaria): le aule del tribunale.
“Il pregiudizio nei confronti delle donne – è la denuncia dell’autrice – colpisce metà del genere umano”.
La società ha ormai di fatto ‘istituzionalizzato’ una serie di stereotipi “volti a neutralizzare la donna e a perpetuare una sudditanza e una discriminazione di genere in ogni campo e soprattutto in quello giuridico, che è il settore determinante perché tutto possa rimanere come è sempre stato”.
E nei processi per violenza contro le donne è facile cadere in errore, motivando sentenze intrise di pregiudizi che possono tendere alla colpevolizzazione della vittima o alla giustificazione dell’imputato: tutto dipende dal modello di riferimento sociale che ha chi è chiamato a giudicare.
“Con la sentenza, all’esito del processo, il giudice non descrive solo uno stato di cose, accertato in dibattimento, ma produce un ordine di valori: un potere enorme sotto il profilo culturale perché produce le cose che dice, non limitandosi a rispecchiarle; dà una forma precisa ai diversi, se non opposti, frammenti di narrazione del processo; nomina, definisce e struttura identità, riconoscendo, negando o spezzando ruoli e codici simbolici di identificazione”,
Così spiega Paola Di Nicola, ‘celebre’ anni fa perché nel procedimento ai danni sulle due studentesse minorenni che si prostituivano in un appartamento ai Parioli aveva sostituito il risarcimento in denaro con libri e film sul pensiero delle donne. Se è vero che il processo, finalizzato a verificare la fondatezza delle tesi dell’accusa, crea “categorie che poggiano su strutture e identità sociali di cui i reati di violenza maschile contro le donne sono la più imponente espressione”, è anche vero che “con le pronunce giudiziarie e l’interpretazione dei giudici, il diritto può avere l’effetto di eliminare le discriminazioni tra i generi, svelando gli stereotipi proposti dai protagonisti della vicenda oggetto di valutazione, perfino anticipando mutamenti culturali”.
Il fenomeno della violenza di genere è vastissimo, anche se meno del 10 per cento delle vittime decide di denunciare: chi non lo fa non ha fiducia nello Stato o teme che l’autore del reato resti impunito; a parte minimi casi, “chi uccide le donne è sano di mente e delibera per tempo il proprio crimine”.
Il 43,6% di italiane (dati Istat del 2017) ha subito una qualunque forma di molestia sessuale sul lavoro. E anche lo stupro non è sempre “questione di raptus”, ma frutto di premeditazione. Per questo motivo, Paola Di Nicola definisce “vera e propria rivoluzione” la legge sullo stupro approvata di recente in Svezia che qualifica illecito qualsiasi atto sessuale che non abbia avuto dalla donna “un consenso esplicito”.
“È la prima volta che in Europa si scrive che la volontà femminile deve essere ascoltata, è la prima volta che la volontà femminile assume valore”.
Ecco, dunque, che la strada maestra da seguire per scardinare “ordini simbolici millenari contenuti in leggi generali e astratte, linguaggio stratificato, pregiudizi e stereotipi propri e altrui” è la cultura.
Un giudice, per non cadere in errore, deve essere “criticamente consapevole” del rischio di essere portato a decidere secondo scorciatoie mentali, quali sono appunto i pregiudizi, soprattutto quando il caso in esame non appare così certo e presenta aspetti di ambiguità.
Per l’autrice occorre “accettare con umiltà di essere tutti imbevuti di pregiudizi, imparare a conoscerli e riconoscerli attraverso una formazione mirata, che abbracci anche competenze diverse da quelle giuridiche; smontarli, attenendosi esclusivamente a elementi di fatto; assumere un atteggiamento critico e non troppo fiducioso con se stessi e con il proprio intuito”.
A chi giudica, insomma, viene chiesta “un’operazione di depurazione, giuridica e culturale, fondata sui soli dati di realtà”. Solo così si può creare “un sapere nuovo, costruire identità differenti dei soggetti processuali, determinare più equi rapporti di forza”.
L’auspicio di Paola Di Nicola, insomma, è che sentenze così motivate possano “anche culturalmente” arginare “il fenomeno globale della violenza degli uomini contro le donne, perché smonta quelli che appaiono argomenti logici dimostrando che sono pregiudizi e impressioni, fondati su automatismi, e allineando così le responsabilità con la realtà”.
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