Cronaca

Una madre racconta cosa vuol dire crescere un figlio in carcere

Una madre racconta cosa vuol dire crescere un figlio in carcere

 Afp

 Madri in carcere

Roberta ha 25 anni e due figli avuti da padri diversi: uno in Brasile che ha sette anni e una bimba di due che vive con lei in una comunità milanese per madri detenute dopo un periodo passato in carcere. Della piccola dice: “Ha già vissuto tantissima vita”, un’espressione potente che racchiude il senso della sua maternità da donna dentro mura insuperabili. Ora si definisce “serena”, con tutti i limiti di orari e movimento di chi sta scontando una misura alternativa alla galera. Ma c’è stato un prima che, dice, “solo chi ci è passato può capire fino in fondo”. Una situazione, quella delle mamme detenute con i figli (circa 60 in Italia), venuta prepotentemente alla luce con i suoi problemi e le sue criticità, dopo il caso di Rebibbia, dove una donna ha ucciso i suoi due figli.

Non tutte le storie però parlano di disperazione. Rinascere è possibile. È il caso di Roberta che ha accettato di raccontarsi. “Sono arrivata in Italia due anni fa da Bahia – racconta all’Agi – una città per turisti ricchi dove per chi ci è nato non c’è nulla. Ero rimasta da poco vedova del padre di mia figlia, avevo le idee confuse e sono caduta in un brutto giro di traffico internazionale di droga. Appena ho messo piede all’aeroporto di Malpensa sono stata arrestata. Ero incinta di sei mesi”. Roberta viene portata nel carcere di San Vittore. “Gli ultimi tre mesi di gravidanza sono stati molto faticosi, stavo male, avevo delle nausee forti ma in carcere non ci si può lamentare più di tanto”.

L’arrivo all’Icam

Quando nasce Teresa (nome di fantasia), per mamma e figlia si aprono le porte dell’Icam, acronimo che sta per Istituto a custodia attenuata per detenuti madri, quello, per intenderci dove soggiornò per un periodo, prima che il Tribunale le togliesse il figlio, anche Martina Levato, la giovane autrice delle aggressioni con l’acido assieme all’allora compagno Alexander Boettcher. “Un carcere anche questo, seppure senza sbarre e i muri colorati, con tantissime regole. Per noi brasiliani le regole non esistono, all’Icam invece ero obbligata a rispettarle. Dopo sole due settimane dal cesareo stavo ancora male ma dovevo alzarmi alle sette per pulire la stanza del capo del carcere, cucinare per tutti due volte alla settimana, contribuire a tenere pulita la struttura e prendermi cura di mia figlia. Potevo uscire solo dalle due alle cinque per stare in giardino”.

Una madre racconta cosa vuol dire crescere un figlio in carcere

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  Madri in carcere

Tutto in un ambiente poco sereno “con litigi tutti i giorni tra le donne, perché ognuna ha il suo carattere e convivere è difficile”. “Nessuno mi aiutava con la piccola – ricorda Roberta – mi dicevano ‘sei tu la mamma, devi prendertene cura tu, dimostraci che sei capace”. Eppure questa disciplina da caserma ora la rievoca con gratitudine: “Mi è servito tantissimo avere delle regole e delle responsabilità. Ho dimostrato a me stessa che ero in grado di farcela. Anche se era tutto complicato: per esempio, quando mi serviva il latte per la bimba di notte a volte la porta della cucina era chiusa a chiave e dovevo chiedere a chi dormiva di aprirmela”.

La pena più straziante

La pena più straziante però non era privare Teresa di un’infanzia libera ma non poter comunicare con l’altro figlio, che vive col papà a Bahia: “Potevo chiamare solo due volte al mese in Brasile perché era una chiamata interurbana. Ma preferivo parlare con mia mamma perché la telefonata durava solo dieci minuti e non volevo che Francesco (nome di fantasia, ndr) stesse male quando mettevo giù, si emozionava troppo quando parlavamo. È stato bruttissimo stare così tanto senza sapere come cresceva. Anche suo padre sta scontando una condanna, non è in carcere ma deve presentarsi in caserma per firmare, ho paura che torni dentro”.

Teresa ora gioca con altri bambini in una stanza della casa famiglia dell’associazione Ciao, gestita da due coniugi, Andrea Tollis ed Elisabetta Fontana. È la prima nata in Italia negli anni Novanta e da qui sono passate circa 400 mamme detenute. “È una bimba vivace e intelligente. Parla bene, si fa capire e ha voglia di andare all’asilo, di stare coi bambini della sua età”. Roberta adesso ha dei progetti e degli enormi timori: “A maggio del 2019 terminerò di scontare la pena e poi voglio restare in Italia e far venire qua Francesco. Non voglio che i miei figli crescano in Brasile, farebbero la mia stessa fine. Ma poi mi chiedo se troverò un lavoro e ce la farò e ho un po’ paura”. 

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