Non sta scritto da nessuna parte e infatti Giacinto Siciliano queste domande le pone agli altri in modo provocatorio, mentre a se stesso ha smesso di farle, perché ha deciso che a scrivere i nuovi paradigmi vuole essere lui: 53 anni, molti dei quali a Milano, nonostante la spiccata inflessione meridionale, è l’uomo che trasforma i penitenziari più difficili d’Italia in luoghi di sperimentazione.
Dopo la rivoluzione di Opera, ora tocca a San Vittore, che vuole trasformare “non in un hotel di lusso, ma in un quartiere della città, con le sue bellezze”. Tutta una vita, la sua, passata ‘in carcere’: “Fra le mura ci sono nato e cresciuto, perché mio nonno era comandante degli agenti di custodia, mio padre direttore, e come tutti aveva l’obbligo di alloggiare ‘dentro’. Io ero convinto che non lo avrei mai fatto: volevo essere un tranquillo professore universitario, oppure un notaio, per fare tanti soldi e lavorare poco. Poi tentai il concorso con una collega: lei fu scartata, io vinsi. Ho sbagliato tutto? Non so, ma sono qua, dopo 26 anni”.

Carcere San Vittore
San Vittore è stato per lui una sfida e un modo “per non ripetersi”, dopo i risultati positivi del precedente incarico. Quando ha accettato però era consapevole delle difficoltà di dirigere una casa circondariale: “Qui arrivano gli arrestati, a volte anche 30 in una notte: restano poco ed è per questo che si concentrano la marginalità e il disagio più disperati”.
Su 1070 detenuti circa 800 sono stranieri, e non restano per più di 90 giorni: “Il tempo per lavorare sul recupero è poco, ma non ci si può fermare alla gestione dell’ordinario, altrimenti ci si livella tutti verso il basso. San Vittore è la porta d’ingresso: ma da luogo di sfollamento può diventare centro di accoglienza e orientamento verso altri istituti, con un percorso già iniziato”
Fin qui parole le da direttore, i progetti, la visione. Ma è la riflessione e l’umanità dell’uomo che emerge sotto la volontà di raggiungere gli obiettivi: “Non devo trattare il carcere da carcere, altrimenti qui dentro diventiamo tutti carcerati e carcerieri”.
E cosa deve essere allora San Vittore, per Lei?
Uno spazio di cultura e di bellezza. Nessuno parla di mondanità, però io da direttore ho la necessità che sul carcere ci sia attenzione vera, quindi devo attirare figure, intelligenze, istituzioni, chiunque possa aiutarci. Accanto ai bisogni quotidiani, come i vestiti e le sigarette, devo incidere sul contesto. San Vittore ha un fascino – che hanno cantato anche i grandi come Jannacci – maggiore di Opera o Bollate. Lo vediamo ogni anno alla Prima della Scala: molti preferiscono venire qui ormai, che andare a Teatro. Se ogni mese offriremo uno spettacolo culturale di alto livello si attiverà un processo di osmosi tra dentro e fuori: il risultato sarà la percezione di questo come un quartiere della città esattamente come gli altri.
Nel corridoio principale abbiamo cominciato con una mostra fotografica: di recente è stata la volta di Andrea Bianconi con le sue frecce: si intitolava ‘Come creare una direzione’, un monito che qui assume una valenza particolare per la vita dei detenuti.
Sembra assurdo pensare a questo come un luogo di bellezza, Le hanno mai detto che ha idee bizzarre?
Tutt’altro. Se io, da detenuto, sono nemico delle istituzioni per definizione, e tu, come Stato, mi tieni in un posto brutto che motivo ho di migliorare? Se invece lo Stato cerca di far capire che c’è, che si impegna, con tutti i suoi limiti a trasformarsi, il risultato è diverso. Perché in ogni cosa o persona brutta c’è comunque del bello su cui lavorare. Al detenuto arriva un messaggio: ‘Lamentati quanto vuoi dell’Istituzione che ti sta tenendo dentro, ma intanto questa Istituzione c’è’”. Mentre dal canto nostro si crea l’attenzione, alla persona, allo spazio, ai contenuti di quello spazio. E si crea cultura: da quando abbiamo le mostre nei corridoi non ci sono più cicche per terra, è già un risultato.
Siamo il mensile di strada e sappiamo che fra coloro che vivono “fuori” ci sono anche i pochi cosiddetti irriducibili. Le è mai capitato di incontrare gli occhi di un detenuto di cui ha pensato che fosse “un irriducibile” del crimine?
Mi è capitato di pensarlo, sì, ma mi è capitato anche di essere smentito. Esistono i cosiddetti ‘delinquenti professionali’, sia fra i criminali comuni che fra i mafiosi, ad esempio. Ma sono convinto che di assolutamente irriducibile non ci sia nessuno: se si ha molta attenzione alla persone prima o poi si fa breccia, perché tutti hanno dei bisogni. E se l’unica volta in cui quel bisogno è emerso l’istituzione l’ha capito ed è intervenuta, una breccia si aprirà sicuramente. Certo, è molto faticoso: è più semplice dire ‘ci stai o non ci stai’, che andare a cercare le persone e aiutarle.
Dopo tanti anni di lavoro immagino si sia posto una domanda: il carcere è necessario?

Carcere San Vittore
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