AGI – “Qualche volta a fine spettacolo (o a volte anche prima) Giorgio Strehler mandava una lettera a tutta la compagnia oppure a un attore che aveva in quel momento in mano, diciamo così, lo spettacolo. Era come una specie di premio alla fine di uno spettacolo in cui voleva dire il suo parere oppure premiare, sapendo la fatica che si fa per arrivare ad un buon risultato in teatro. Il teatro è lì, non si rifà più e non è come il cinema che uno dice: ‘beh rifacciamo questa scena oppure quell’altra’. Era generoso in questo, non era una cosa ‘tanto per’, ma erano verità che lui diceva per il piacere di fare l’encomio finale, se tutto fosse andato bene ed esprimere la sua soddisfazione per il lavoro che era stato fatto”. Al telefono con l’AGI Giulia Lazzarini, una delle più grandi attrici teatrali italiane, interprete di tante stagioni al Piccolo di Milano nella compagnia di Giorgio Strehler e una delle sue attrici predilette, parla del suo rapporto con il grande regista in occasione della presentazione alla Festa del cinema di Roma del documentario di Maria Mauti, ‘Giulia mia cara! Giorgio’, alle ore 21 al Maxxi.
Bloccata a Milano a causa di un’infreddatura durante uno spettacolo che sta portando in scena al Piccolo – ‘Gorla fermata Gorla’ del regista e drammaturgo Renato Sarti – la Lazzarini parla delle famose lettere che Strehler le mandava e che danno il titolo al documentario presentato nella sezione Freestyle del festival.
Fra tutte queste lettere ce n’è una a cui è più affezionata? “Tutte – la risposta netta dell’attrice che a 90 anni mantiene tutto il suo fascino come si vede nel documentario su di lei di Maria Mauti – perché tutte riguardano la fine di un impegno molto faticoso e quando ricevevo queste lettere, dicevo: meno male. Perché è bellissimo, però è anche una grande fatica fare uno spettacolo, per gli attori e per chi lo mette in scena”.
Nelle lettere, aggiunge la Lazzarini, “ci sono dei punti che sono molto significativi, non solo personali per me, ma che riguardano un modo di fare il teatro – spiega – ‘ricordati che’ sempre come una specie di sottolineatura, di ‘remember’, in cui dice: ti scrivo questo perché io non sarò lì. Non ci sono in scena, sarai da sola, ricordati tutto quello che è stato detto, tutto quello che hai fatto, quello che hai imparato, quello che è tuo ormai e con quello dovrai poi fare e vivere e scordarti persino di chi te l’ha insegnato, perché quando sei solo, sei solo, non c’è niente da fare”.
Chi era Giorgio Strehler? Giulia Lazzarini ci lavorò dalla metà degli anni ’50 al 1962 e poi di nuovo dal 1974 fino alla fine degli anni ’80 quando fu la spalla del regista che si cimentò nella sua più importante prova di attore in ‘Elvira, o della passione teatrale’ nel 1987, spettacolo basato su sette lezioni che Louis Jouvet tenne nel 1940.
In pochi l’hanno conosciuto professionalmente più profondamente di lei. E nessuno meglio della Lazzarini può dire se era così severo come si racconta. “No, vabbè, – risponde – il nostro è un lavoro durissimo, quindi farlo senza qualcuno che ti guida, da soli, è molto complicato perché abbiamo sempre bisogno di un riscontro. Era Strehler che guidava la sua compagnia e i suoi attori col piacere di farlo, di fare il teatro, quindi penso che tanti attori debbano essere grati a lui per le cose che ha fatto e per come sono state fatte”.
Che cosa rimane oggi di Strehler? “Rimane tutto quello che lui ha fatto, il suo modo di fare teatro, la sua disciplina – risponde Giulia Lazzarini all’AGI – lui era un artista, non era soltanto uno che metteva in scena uno spettacolo, ma se lo faceva, era perché questo spettacolo avesse un senso e perché dovesse dire qualcosa agli spettatori. Il teatro è quello – aggiunge – non può essere certo un piacere personale giusto per esibirsi in qualche modo”.
La cosa più importante che hanno ereditato le giovani generazioni da Strehler? “Questo modo di fare teatro, che è un modo non per metterti semplicemente in scena, ma per raccontare qualcosa, perché quello che tu racconti sia un ponte, qualcosa che arriva dall’altra parte – spiega – con lui abbiamo fatto tanti spettacoli di Brecht, oppure questo tipo di modo di recitare, quasi critico diciamo, in cui tu racconti qualche cosa che deve avere un significato, altrimenti non ha senso. Il suo è un teatro che storicamente ha portato i suoi attori e anche la sua scuola a essere quello che sono”.
Giulia Lazzarini, infine, ci tiene a sottolineare la differenza tra teatro e cinema. “Quando sei sul palcoscenico, sei tu a contatto con quel pubblico. Cosa che invece non accade nel cinema: tu registri, giri, ma c’è sempre il regista, c’è l’operatore, c’è quello che ti aggiusta la luce – spiega – tu poi parli sul set e sarà prodotta un’immagine che poi sarà quella che verrà proiettata. Ma tu non ci sarai più allora, tu ci sei in quel momento li’. Mentre nel teatro sei sempre presente: il regista ti lascia da sola e devi fare tutto da sola”.
Anche se si tratta di arti diverse, la Lazzarini ha lavorato molto sui set, soprattutto televisivi. Al cinema, invece, ha ottenuto il suo primo grande successo soltanto nel 2015 con ‘Mia madre’ di Nanni Moretti per cui si è aggiudicata un David di Donatello e un Ciak d’oro, oltre a un Nastro d’argento speciale. “Nanni Moretti lo stimo moltissimo e con lui ho lavorato benissimo – racconta – io vengo dal centro sperimentale di cinematografia e la mia prima scuola è stata quella, per cui poi ho fatto il cammino inverso: è come una linea che ha fatto una curva, partendo dal cinema sono arrivati al teatro. Di solito è il contrario: io cinema non l’ho più fatto”. L’esperienza sul set con Nanni Moretti come è stata? “Esperienza molto bella perché trovo che lui sia un ottimo maestro ed è attento alle cose che fa. Forse è un po’ troppo pignolo – aggiunge – non è quasi mai contento e spesso rifà i suoi ciak. Questo però è il suo modo di lavorare”.
“Nel cinema, uno magari dice: ‘allora facciamo questa scena, facciamo così, inventiamo al momento’ – continua – il cinema è così, mentre il teatro no. In teatro non puoi, ciò che fai lo devi provare, provare, provare e poi essere sicuro di quello che fai quando sei in scena. Con il pubblico, infatti, devi essere al meglio – aggiunge – e devi stare sempre in quel quadrato che è quello nel quale tu devi vivere, muoverti e far capire quello che vuoi far capire. Tutto un altro modo – continua nel suo paragone col cinema – pero’ devo dire che sia il teatro che il cinema richiedono all’attore una grande presenza, una grande passione tra l’altro. Non è che si può fare tanto per mondanità. Ogni volta è una cosa difficile e nuova: è un mestiere più duro di quanto possa sembrare, di quanto si creda”, conclude.