Vittorio La Verde / AGF
Enzo Tortora (AGF)
“Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo ‘grazie’ a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto, e un’altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo so anche, per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta”. Portobello ricominciava da dove s’era fermato bruscamente. Ricominciava con Enzo Tortora, il suo protagonista vero.
Sommario
Basta un nome su un’agendina
Dire Enzo Tortora è come dire televisione di qualità, giornalismo di qualità, ma anche il buco nero della giustizia italiana, la ferita rimasta insanabile dopo ben 35 anni e nonostante le ammissioni di errore da parte della stessa giustizia. Il tutto per un errore di lettura di un nome su un’agendina trovata in casa di un camorrista: era scritto Tortona, fu letto Tortora. C’era anche un numero telefonico accanto a quel nome, e il numero non corrispondeva all’utenza del presentatore e giornalista. Ma non bastò ad evitare la gogna.
Una colonna d’infamità
Domani Enzo Tortora avrebbe compiuto 90 anni, era nato a Genova il 30 novembre 1928. Morì a 59 anni, vittima del cancro, il 18 maggio 1988 nella sua casa di Milano. Funerali nella Basilica di Sant’Ambrogio, le ceneri in un’urna al Cimitero Monumentale assieme a una copia del libro ‘Storia della colonna infame’ di Alessandro Manzoni, nell’edizione che aveva la prefazione di Leonardo Sciascia. Un testo non a caso: tratta di uno dei primi casi documentati di malagiustizia in Italia.
E di malagiustizia, di errore giudiziario, patì Tortora, tra accuse infamanti – essere organico a una struttura camorristica che spacciava droga – e l’arresto il più mediaticamente appetibile per fotografi e cameramen, nel cuore della notte tra il 16 e il 17 giugno 1983 all’hotel Plaza di Roma e poi le manette ben in evidenza ai polsi del giornalista. Il successo di Portobello, trasmissione che aveva milioni e milioni di telespettatori, e quello della Domenica Sportiva, bruciato in un niente. E tanti colleghi, anche celebri, non esitarono a dire che sì in fondo non poteva che essere colpevole, come si faceva a dubitare – il ragionamento dei colpevolisti dell’immediata ora – di un’operazione compiuta nel cuore della notte e che chiamava in causa un personaggio come Tortora. Non poteva che essere tutto vero. E invece…
Le false accuse della camorra
A innescare la bomba ad orologeria era l’accusa venuta da elementi della NCO, la Nuova Camorra Organizzata, che faceva capo a Raffaele Cutolo: il giornalista era un corriere della droga, e nella sua posizione aveva buon gioco in questo traffico. Accuse sulla base di dichiarazioni di Giovanni Pandico, Giovanni Melluso e Pasquale Barra. Seguirono sette mesi in carcere e molti altri ai domiciliari, nella sua casa milanese, e furono quattro anni di battaglia giudiziaria del giornalista per dimostrare di essere innocente.
Ai primi tre camorristi accusatori se ne aggiunsero altri 8 imputati nel processo alla NCO. Accuse anche dal pittore Giuseppe Margutti e dalla moglie: dissero di aver visto Tortora spacciare droga negli studi di Antenna 3. Le false testimonianze furono 13, i pentiti accusatori furono 19. E Tortora era uno dei tanti nella maxi inchiesta che portò a più di 850 arresti in tutta Italia, coinvolgendo anche sospetti terroristi di ogni parte, politici, personaggi noti, oltre che camorristi. Ma Tortora era il nome e il volto che faceva notizia.
Una lettera per il Quirinale
A difenderlo pubblicamente furono subito Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Indro Montanelli. Biagi scrisse una lettera aperta al presidente della Repubblica Sandro Pertini, pubblicata nell’agosto del 1983 sul quotidiano La Repubblica: “Signor Presidente della Repubblica, non le sottopongo il caso di un mio collega, ma quello di un cittadino. Non auspico un suo intervento, ma non saprei perdonarmi il silenzio. Vicende come quella che ha portato in carcere Enzo Tortora possono accadere a chiunque. E questo mi fa paura”. Ma nel 1985 arrivò la condanna al carcere, 10 anni. Il giornalista l’anno prima era stato eletto europarlamentare nelle liste dei radicali, rinunciò all’immunità, si dimise. Nel settembre 1986 arrivò l’assoluzione con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli, confermata in Cassazione nel giugno 1987.
“Lo Stato fallì”
Nessuna azione penale o indagini nei confronti dei magistrati che indagarono Tortora. Ma quella vicenda ruppe un muro, diede vita al referendum sulla responsabilità civile dei magistrati da cui poi originò la legge Vassalli sul ‘Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati’. Solo che non era una legge retroattiva, perché e leggi con valore retroattivo non possono esistere…Una ferita ancora aperta, viva. E non è casuale che nelle scorse settimane l’attuale ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ne abbia parlato in occasione di un dibattito sostenendo che Enzo Tortora è stato “un uomo innocente costretto, però, a pagare un prezzo carissimo e, nonostante ciò, risoluto nel condurre la battaglia per dimostrare la propria innocenza ma anche per concorrere a rivendicare, per tutti i cittadini, la necessità di una giustizia davvero equa e imparziale”. “Avverto – ancora Bonafede – come doveroso rivolgere, a nome dello Stato, le scuse a Enzo Tortora e alla sua famiglia“, perché “in quell’occasione lo Stato, infatti, non seppe rispondere adeguatamente alla richiesta di un suo cittadino di fare giustizia in maniera certa e tempestiva, accertando responsabilità, torti e ragioni”. Tortora “comprese bene, infatti, come una giustizia che produce decisioni inique e non rispondenti alla realtà dei fatti non costituiva un problema soltanto per l’individuo destinato a subire gli effetti di queste decisioni ma rappresentava un vulnus tale da danneggiare la credibilità delle istituzioni giudiziarie incrinando la fiducia dei cittadini nei confronti delle stesse”.
Enzo Tortora (AGF)
Sono trascorsi ormai trent’anni dalla morte di Enzo Tortora ma – aggiungeva Bonafede in quell’intervento – “la rabbia per la tragica storia di ingiustizia di cui è stato vittima non si è ancora spenta”. Una vicenda che ha segnato “una pagina triste per il sistema giudiziario italiano, anche a causa delle responsabilità di alcuni media che alimentarono la diffusione di notizie infondate e prive di riscontro”. Basterà? Certo, a leggere quanto Tortora scrisse alla compagna all’epoca della sua detenzione è ben difficile crederlo: “È stato atroce, Francesca. Uno schianto che non si può dire. Ancora oggi, a sei giorni dall’arresto, chiuso in questa cella 16 bis, con altri cinque disperati, non so capacitarmi, trovare un perché. Trovo solo un muro di follia”.
L’ultima apparizione in tv
Il congedo pubblico fu nell’aprile 1988, da ricoverato e pochi giorni prima di morire: nel corso della trasmissione tv “Il testimone” di Giuliano Ferrara disse “Il mio compito è uno: far sapere. E non gridare solo la mia innocenza: ma battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che onorano, per paradosso, il fascismo, vengano a cessare. Perché un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere. Su delazioni di pazzi criminali”.
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