Cronaca

In Portogallo non ci vanno più solo i pensionati italiani

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In Francia, Germania, Spagna e Regno Unito si sono già organizzati, così come in Brasile, Australia, Stati Uniti e Sudafrica. In Portogallo ancora no, ma presto qualcosa cambierà: anche sulle sponde dell’Atlantico nascerà presto un’associazione di ricercatori italiani.

Lo anticipa ad Agi Davide Accardi, il direttore del dipartimento di microscopia ottica della Fondazione Champalimaud di Lisbona. Quarant’anni, di Palermo, in Sicilia è cresciuto e ha studiato. Poi però se n’è andato dall’Italia: “Mi hanno detto chiaramente “O accetti un dottorato senza borsa o qui non avrai mai un posto” – ci racconta – e io altri quattro anni chiedendo 10 euro a mia madre per uscire non ero disposto a farli”.

Così è emigrato: prima in Germania, nove anni al Max Planck Institute di Dresda, e poi a Lisbona dove oggi dirige un team di tre persone che lavorano utilizzando la luce per studiare cellule e organi, e capire per esempio il meccanismo di infiltrazione del cancro negli tessuti.

“Un’associazione che attragga ricercatori italiani in Portogallo”

“Stiamo preparando la bozza dello statuto dell’associazione – spiega Accardi -, a novembre faremo il primo incontro ufficiale. Sarà una realtà indipendente dai centri di ricerca o dalle università portoghesi, avrà l’appoggio della nostra ambasciata e l’intenzione è quella di attrarre e accogliere nuovi ricercatori che lavorano ancora in Italia”. Il motivo? “La preparazione italiana è di eccellenza però mancano le opportunità”.

Non è un caso che siano molti i ricercatori che oggi vivono in Portogallo: un dato ufficiale non c’è, ma secondo Accardi sono tra i 100 e i 200 solo a Lisbona e altrettanti nel resto del Paese. “Per prima cosa vogliamo fare tutoring in maniera gratuita a chi fa un Erasmus o chi arriva qui da neolaureato. Poi penseremo a trovare fondi e avviare altri progetti”.

Accardi in Portogallo è arrivato da poco più di un anno, altri colleghi hanno scelto di trasferirsi lì molto tempo prima. Goffredo Adinolfi, 44 anni, vive a Lisbona da circa quindici anni: “Ho fatto un dottorato in Italia in storia contemporanea sul fascismo portoghese, verso la fine mi sono candidato a un post-doc qui e ora collaboro con l’Iscte, l’Istituto Universitario di Lisbona”.

È lui che ci spiega perché ci sono tanti italiani in Portogallo: “Ci sono state due ondate di arrivi, la prima all’inizio degli anni 2000, l’altra verso il 2008. Il governo ha cercato di svecchiare il mondo della ricerca facendo arrivare giovani dall’estero e, soprattutto nel primo caso, molti erano italiani”.

Oggi la situazione è leggermente diversa: “Il sistema si sta chiudendo per stabilizzare i precari”, ma il Portogallo rimane un Paese attraente agli occhi dei ricercatori. Forse meno dei colossi del centro Europa tradizionalmente all’avanguardia, Germania e Svizzera su tutti, ma nemmeno troppo. Il perché è presto spiegato: più opportunità e laboratori dell’Italia, meno clientelismo, una visione più avanguardista, burocrazia ridotta al minimo. Il tutto in un Paese non troppo diverso dall’Italia come clima e con un costo della vita inferiore, dettagli da non sottovalutare quando si tratta di decidere dove trasferirsi.

“La ricerca in Italia? Un sistema cooptativo”

Francesca Negro è nata a Genova, lì ha studiato lettere moderne e preso un master, vinto un dottorato e si è specializzata in lettere comparate. “Mi occupo della comparazione di uno stesso concetto in lingue e culture diverse”, racconta ad Agi. “Quando ero a fine dottorato ho trovato un progetto di ricerca in Portogallo e grazie a un concorso europeo mi sono trasferita”. Ha lasciato l’Italia 12 anni fa, dopo aver collaborato con un istituto di glottologia – “Un lavoro non retribuito”, precisa – e aver realizzato semplicemente che “non c’era posto” anche perché “i docenti che conoscevo erano fuori dai giochi politici”.

Non avrebbero cioè potuto inserirla nell’ambiente accademico: in Italia, raccontano gli intervistati, per far carriera servono le conoscenze giuste. “Il sistema italiano è cooptativo – spiega Adinolfi – e spesso non basta neppure avere contatti: il docente a cui ti appoggi deve essere alto in graduatoria e devi capitare nel momento giusto”. Spieghiamo meglio: “La mia impressione si riferisce agli anni tra 2005 e 2008, prima che me ne andassi. Mi sembrava che le posizioni di dottorato fossero distribuite a priori, cioè che hai possibilità di entrare solo se sei nelle grazie del professore che in quel determinato anno sceglie chi far entrare – dice Accardi -. Ho avuto la sensazione di un nepotismo assoluto”.

Questione di spirito

“Quando ho finito l’università a Pavia non avevo il desiderio infinito di andare all’estero”, racconta la microbiologa Eleonora Aquilini. “In Italia però ho trovato tante porte chiuse e qualcuna aperta senza sostegno economico: vincevo concorsi ma non avevano borse da offrirmi”. Così è partita, grazie a un bando Leonardo della Sapienza di Roma: “È stato il classico portone che si apre. Sono finita a Barcellona dove c’era un vero spirito di ricerca, poi in Portogallo e oggi faccio la spola tra il sud della Francia e Chicago”.

Lì studia come il Toxoplasma gondii invade l’organismo ospite. “In Italia non funziona – commenta – non c’è quella molla che spinge ad avventurarsi ai confini di quel che si sa”. Non è così dappertutto, ovviamente, però anche Accardi conferma il mondo relativamente piccolo attorno a cui ruota la ricerca nostrana: “Anche dove non c’è un problema di fondi la visione non è grande come quella che abbiamo alla Champalimaud. I ricercatori non arrivano da fuori anche banalmente perché i colloqui di lavoro sono a spese proprie, cioè senza rimborso spese di viaggio”. Difficile suscitare il fascino oltre i confini nazionali, con una simile premessa.

Tornare (magari) sì, ma dove?

Hanno lasciato l’Italia ma continuano ad amarla: “Non si divide il cuore, te ne fai un altro e io sono ancora innamorata del mio Paese”, spiega Negro. Di tornare, però, non se ne parla: “Quando te ne vai scompari, io non avevo santi in paradiso”. Le fa eco Sonia Miceli, che il viaggio solo andata da Reggio Calabria al Portogallo l’ha fatto nel 2007: “Tornare sarebbe un ricominciare, in Italia non saprei proprio dove”.

Il teorema inverso è presto detto: “La mia impressione è che se entri nel sistema italiano è meglio se ci rimani”, commenta la neuroscienziata Cecilia Mezzera.  Nata a Ivrea, in Piemonte, 36 anni fa, lavora dal 2014 alla Fondazione Champalimaud dove ora si occupa di studiare i meccanismi che regolano il cervello della femmina in diverse specie animali: “In questo momento sono sulla mosca, sto lavorando sul modo in cui le femmine decidono se accettare il corteggiamento”.

Non è tutto oro quel che luccica

Anche il Portogallo, in ogni caso, ha i suoi problemi nella ricerca. La Fondazione Champalimaud è un caso fuori dal comune perché gode di fondi privati e di una gestione orientata “a farlo diventare uno dei centri di ricerca più importanti d’Europa”, spiega Accardi. Non funziona allo stesso modo dappertutto: “Anche qua ci sono difficoltà, pochi fondi e canali non sempre trasparenti – commenta Sonia Miceli, che infatti ora ha ridotto il suo impegno nella ricerca in materia di studi comparati per fare la guida turistica –. Non è il paese dei balocchi”.

Per Francesca Negro “vincere i concorsi aperti è difficile, ma perlomeno esiste la possibilità”. Che in numeri si traduce in “cinquecento candidati per due posti”. Va un po’ meglio, in proporzione, per i concorsi di ricerca tramite ministero, spiega Adinolfi: “L’ultima volta erano in 3500 per 500 posti, mentre quelli universitari sono più proibitivi”. La parole d’ordine, insomma, è opportunità: la stessa che l’associazione dei ricercatori italiani in Portogallo ha in mente di stampare nel suo statuto fondativo. In attesa che anche lo Stivale si riapra del tutto ai suoi giovani accademici.

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