AGI – Un gigante della politica italiana e dell’antifascismo, direttore della rivista Critica Sociale, per anni colpevolmente dimenticato. Arriva in libreria “L’eretico. Giuseppe Faravelli nella storia del socialismo italiano”, volume scritto da Fabio Florindi ed edito da Arcadia edizioni. Si tratta della prima biografia sulla vita di Faravelli, un uomo che ha attraversato un’ampia stagione politica italiana, stando sempre dalla parte dei lavoratori e del socialismo riformista. Vicino a Giacomo Matteotti e a Filippo Turati, con l’avvento del fascismo anche lui subirà le persecuzioni che lo porteranno a espatriare all’estero, dove diventa Joseph, tra i più intransigenti e influenti capi dell’antifascismo in esilio. Il libro offre una narrazione ricca di dettagli e documentazione inedita. Attraverso uno stile coinvolgente, ci restituisce non solo la figura pubblica di Faravelli, ma anche il suo lato più intimo e umano. Era un iracondo, che si lasciava andare spesso a sfuriate leggendarie. Era anche dotato di un’ironia corrosiva, che scivolava volentieri nel turpiloquio. Tanto la sua salute era precaria, a causa di un enfisema che lo tormentò per tutta la vita, quanto il suo carattere era forte.
Nato nel 1896 a Broni, in provincia di Pavia, in una terra dove il socialismo riformista aveva dato vita ad alcune delle sue più lungimiranti realizzazioni, Faravelli si dimostra per tutta la vita l’antipode del politico di potere. Approda al socialismo dopo l’esperienza della trincea nella Grande Guerra, dove per la sua condotta gli vengono conferite la medaglia di bronzo e la croce di guerra al valor militare. Aderisce alla corrente riformista di Turati, di cui è uno dei discepoli prediletti. Con l’avvento della dittatura fascista, Faravelli non ripara all’estero, ma sceglie di continuare la battaglia nella clandestinità. Resta al suo posto di commissario amministrativo del Comune di Milano e si serve dell’impiego per fornire a diversi antifascisti le carte necessarie per l’espatrio. Scoperta la sua attività contro il regime, nel 1931 deve però fuggire avventurosamente in Svizzera.
Quando la Francia crolla, sotto l’avanzata dei panzer di Hitler, è sempre Faravelli a cercare di rimettere assieme i cocci del Psi in esilio, andato in mille pezzi. Riparato in modo rocambolesco a Tolosa, scrive ai membri dell’ultima direzione del partito per mettere a punto le nuove direttive. Nel 1943 le autorità della Francia “libera” lo consegnano alla polizia fascista. Joseph rischia la condanna a morte, ma alla fine se la cava con 30 anni di carcere. A ridosso della Liberazione, un bombardamento americano gli permette di fuggire di prigione e di riparare in Svizzera.
A guerra finita è il primo a lamentare la paralisi del Partito socialista a causa dello scontro tra l’anima democratica e quella frontista. Faravelli spende tutte le sue energie nella battaglia interna contro i frontisti. Gliene dà atto anche Saragat, che dall’ambasciata italiana a Parigi gli comunica: “Ho saltato il fosso: rientro in Italia. Ho scritto in questo senso al presidente De Gasperi e penso che per i primi di marzo sarò con voi […]. Ciò che mi ha deciso è stato lo spettacolo di serietà, di fermezza e di coraggio che anima il vostro gruppo di Critica sociale” . Joseph è il più lucido della sua corrente nel leggere la situazione e il primo a convincersi dell’ineluttabilità della scissione, che nel gennaio del 1947 conduce alla nascita del Psli.
L’idea di un Partito socialista come “terza forza”, che non dovesse chinare il capo né alla Dc né al Pci, restò sempre la sua stella polare. Questa visione lo condusse alla solitudine politica, Faravelli fu uno dei pochi protagonisti dell’antifascismo che con l’avvento della Repubblica non ricoprì incarichi di prestigio nelle istituzioni. Un po’ perché rifuggiva gli onori e le candidature, ma anche perché era un politico scomodo, non disposto ad anteporre il tornaconto personale o di “clan” all’interesse del Paese. Intransigente con il fascismo, lo fu in modo altrettanto forte con il comunismo. Dopo la scissione, fu uno dei tre segretari provvisori dei socialdemocratici. Ma, come prima aveva attaccato la politica frontista di Nenni, nel nuovo partito Faravelli criticò la linea di Saragat, secondo lui troppo appiattita sul ministerialismo e sulla Dc.
Joseph ripose molte speranze sull’unificazione socialista, che prese corpo nella seconda metà degli anni ’60, pur essendo critico sulle modalità con cui venne intrapresa. Il fallimento di quell’operazione, e la successiva scissione con la rinascita di Psi e Psdi, fu l’ennesima delusione della sua militanza. Non gli rimase che Critica Sociale, di cui Faravelli era diventato direttore nel 1958, dopo la morte di Ugo Guido Mondolfo. Bussò a tutte le porte per reperire finanziamenti e, in una lettera al giovane collaboratore Giuseppe Tamburrano dell’ottobre 1973, si sfogò: “M’è venuto il dubbio che qualcuno pensi che io cerchi di salvare la vita della Critica per un interesse personale materiale. Ma è bene che si sappia ch’io dalla Critica non ho mai preso un quattrino e che invece devolvo a suo favore il cosiddetto “vitalizio di benemerenza” che mi è dato come “vittima politica” (lire trentatremila circa mensili). Inoltre pago l’abbonamento sostenitore”. Alla rivista Faravelli dedicò le sue ultime forze, fino alla morte che sopraggiunse il 15 giugno 1974.
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