“Mi dispiace avere fatto soffrire involontariamente delle persone commettendo errori. Non ho mai detto di avere sempre fatto tutto bene, ma non ho mai voluto fare del male ai miei pazienti per carpire la loro fiducia e fargli spendere soldi”. Fabio Presicci, vice di Pierpaolo Brega Massone nell’équipe di chirurgia toracica della Santa Rita, per i media la ‘clinica degli orrori’, ha visto cadere l’accusa più grave nei suoi confronti, quella di omicidio volontario ai danni di due pazienti in relazione a operazioni inutili eseguite per ottenere rimborsi indebiti dalla Regione Lombardia.
I giudici hanno ridotto la pena da 24 anni e 4 mesi a 7 anni e 8 mesi riqualificando l’accusa in omicidio preterintenzionale, escludendo l’aggravante in base alla quale avrebbe operato per arricchirsi attraverso i rimborsi previsti dal sistema sanitario lombardo e riconoscendogli le attenuanti generiche per il percorso virtuoso compiuto in carcere, di cui aveva preso atto anche l’accusa. Restano però dietro di lui delle montagne: la sentenza definitiva a 8 anni e sei mesi di carcere per un’ottantina di lesioni dolose che ha finito di scontare a settembre e la condanna e un lungo percorso di detenzione.
In carcere ha scritto un romanzo intitolato ‘Passi indietro’, autobiografico fino al giorno dell’arresto, il 9 giugno del 2008, poi la trama prende una piega fantasiosa. A dieci anni di distanza dal punto di svolta della sua vita, racconta all’Agi il pezzo di biografia ‘tagliato’ dalle pagine del libro. “Quando le forze dell’ordine mi hanno comunicato le accuse di lesioni, truffa e omicidio ero nella più totale incredulità, pensavo che da un momento all’altro spuntasse qualcuno per dirmi che era uno scherzo ma in quel momento ho cominciato a sentire qualcuno che mi spingeva nel vuoto e l’impatto con la terra non arrivava mai. Le operazioni che mi contestavano nel capo d’imputazione le ricordavo bene, io e Paolo (Brega Massone, ndr) eravamo talmente pedissequi da seguire i nostri pazienti che trascorrevamo insieme intere giornate. Non mi vergogno a dire che tante volte ho pianto assieme ai parenti di fronte ai loro congiunti morti, moti li ho ancora bene impressi. Mi fidavo così tanto di Paolo da fargli operare di tumore parenti e amici che, a distanza di oltre dieci anni, stanno bene. Dopo l’arresto non ho più avuto contatti con lui. So che da quando è in carcere è uscito una sola volta per due ore per i funerali della madre”.
La prima parte della custodia cautelare la sconta a San Vittore: “Per dieci mesi sono stato con altre 8 persone in una cella di 32 metri quadri, in seguito mi è stata scontata parte della pena perché ho vinto un ricorso in base alla sentenza Torreggiani sul sovraffollamento nelle carceri. Mentalmente ho deposto subito il camice appena entrato in prigione. L’umanità degli altri detenuti mi sorprese. Uno di loro mi disse subito: ‘Quando parleranno di te in televisione, cambieremo canale’. E così si fece. Gli agenti penitenziari mi chiedevano consulenze sulle cartelle cliniche dei familiari, mi chiamavano ‘dottore’ ma io insistevo per essere chiamato Fabio. A salvarmi, in quel periodo, è stata la mia passione per la cucina, ero il cuoco della cella”.
Al suicidio garantisce di non avere mai pensato “perché sono innocente e avevo dei figli dei genitori, una ex moglie, una famiglia, a cui dimostrarlo”. Anche se, ricorda, il 13 maggio del 2009 “quando mi arrivò in carcere una seconda ordinanza di custodia cautelare venni messo in isolamento con sorveglianza a vista nonostante la psicologa assicurò che potevo stare con gli altri detenuti. La cella era inagibile, c’erano tracce di vomito ed escrementi che aveva lasciato il precedente ospite. L’ispettore mi promise che avrebbe mandato qualcuno a pulirla ma lo sollecitai a portarmi dei guanti che ci avrei pensato io perché quella doveva diventare la mia casa”.
La verità giudiziaria accertata dalla sentenza definitiva, promossa dalle indagini degli allora pm milanesi Tiziana Siciliano e Grazia Pradella, è che Brega e Presicci hanno inciso decine di volte il bisturi quando non ce n’era bisogno, asportando inutilmente noduli o addirittura seni e polmoni. Spesso hanno operato senza indicazione terapeutica, a volte pazienti molto anziani o incurabili. Tutto per incrementare i rimborsi, fare carriera e quindi arricchirsi, finché un esposto anonimo fece scattare le indagini della Guardia di Finanza.
Sul merito delle accuse, la difesa di Presicci verte soprattutto sul fatto che “non è mai stata fatta una perizia super partes che avrebbe dovuto rispondere ai quesiti posti dal giudice tenendo presente del materiale della Procura e soprattutto del materiale bibliografico. I giudici hanno sempre detto che bastavano le consulenze della Procura e quelle delle difese. Ho sempre contestato la mancanza di un reale dibattimento scientifico, non ho mai detto che quegli interventi fossero certamente giusti ma non erano nemmeno certamente sbagliati. L’accusa che mi fa più male è quella di avere agito con crudeltà. Non sono pentito di nulla, se non di avere fatto del male alla mia ex moglie e ai miei due figli che hanno visto crescere il padre in prigione”.
Le operazioni agli anziani? “Anche allo Ieo si facevano, mi ricordo di avere operato un 90enne che aveva un tumore maligno. Non sono diventato ricco – si difende – il professor Lorenzo Spaggiari, direttore dell’èquipe toracica allo Ieo, venuto in aula come testimone a demolirmi dal punto di vista professionale ma disse di non credere che avevo lavorato per soldi perché anche allo Ieo io mi opponevo alla politica di far aspettare i pazienti col servizio sanitario nazionale e spalancare autostrade a quelli privati”.
E la sentenza di oggi, differentemente da quella passata in giudicato, sembra dargli ragione su questo punto. Presicci è stato radiato dall’Ordine dei Medici dopo la condanna che ha scontato, l’ultima parte in affidamento in prova alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone (“Ci vado ancora come volontario, ne traggo un guadagno morale indecifrabile”).
Non potra operare mai più: “Anche se volessi farlo all’estero non potrei perché devi avere un casellario pulito. Capita che i miei amici mi chiedano dei pareri sui loro problemi di salute, non so se mi fa più bene o male rendermi conto che la medicina ancora mi appartiene”.
L’ultima parte della detenzione è stata ad Opera. “Grazie a Silvana Ceruti (Ambrogino d’oro per avere introdotto la poesia nel carcere) e al suo laboratorio di scrittura creativa ho scoperto di avere una vena poetica. Grazie alla poesia, sono riuscito ad avere i primi permessi, con la scorta, il primo in assoluto per leggere le nostre opere, assieme ad altri detenuti, in una vecchia chiesa. La poesia, la scrittura e la cucina mi hanno tenuto lontano dagli spettri della notte. Ho potuto confrontarmi con me stesso quando ero solo in carcere con un tavolo e uno sgabello. Quando sono andato via da Opera e da San Vittore, ho pianto perché lasciavo degli amici”. Dopo avere riottenuto la libertà completa, Presicci, 53 anni, ha cominciato a lavorare a pochi passi dal Tribunale, come segretario in uno studio che offre consulenze legali. “Il mio datore di lavoro è il medico legale che mi ha seguito nel processo e difeso dalle accuse di omicidio. Mi vogliono tutti bene, sono apprezzato e benvoluto”.
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