Cultura

Cento anni fa nasceva a Varsavia il sovranismo identitario

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F. Levshin / RIA Novosti / Sputnik 

 Lettori di giornali in Polonia durante la Seconda Guerra Mondiale

Con un telegramma datato Varsavia, il 16 novembre 1918 un oscuro generale appena uscito di prigione si rivolgeva alla pari ai grandi vincitori della Prima Guerra Mondiale. “Notifico l’esistenza dello Stato Indipendente della Polonia”, informava gentilmente Jozef Pilsudski i suoi destinatari: i francesi, gli inglesi e anche l’americano Woodrow Wilson. Pilsudski era appena uscito dalla Fortezza di Magdeburgo: ce lo aveva rinchiuso il Kaiser Gugliemo II perché, insubordinato come tutti i polacchi, insieme ai suoi uomini si era rifiutato di giurargli fedeltà. Ma ora i Kaiser non era più a Berlino, e non era più nemmeno il Kaiser. Quanto ai tedeschi, erano stati disarmati qualche giorno prima in tutta la Polonia.

Cos’è il sovranismo identitario

Tornava a nascere con quel telegramma uno dei Paesi più importanti d’Europa, ed una Nazione che mai aveva cessato di esistere ma che si trovava sotto schiavitù dalla bellezza di 123 anni. E con essa nasceva anche qualcosa di inedito per la politica e le scienze storiche, e che invece era molto antico da quelle parti: il sovranismo identitario.

Il sovranismo identitario non è da confondere con il nazionalismo. È qualcosa di diverso: presuppone non tanto un atteggiamento revanscista e vagamente aggressivo tipico dei nazionalismi, e nemmeno la presunzione di avere un fardello di civiltà da imporre agli altri. Consiste, semmai, nell’idea che gli altri sono gli altri, e io sono io: ognuno a casa propria e staremo meglio tutti. Perché come me, in fondo, non c’è nessuno. Peggiori o migliori va bene, ma mai uguali: grazie, Polonia.

Confini naturali, nemici naturali

Poteva essere diversamente, in un Paese con la sua storia? Fin dagli albori la Polonia non ha mai avuto confini naturali ben piantati nel terreno, come le nostre Alpi. Al massimo qualche grande fiume, che sembra star lì proprio per essere un confine da violare (e gli stessi polacchi qualche volta se ne sono approfittati). Non stupisca se si presentò agli altri europei nel Basso Medioevo dandole di santa ragione ai Cavalieri Teutonici a Tannenberg. Arrivata pertanto in Livonia e Lituania, divenne grande potenza regionale entrando in attrito con la Moscovia. Aveva trovato così il suo secondo nemico naturale.

I rapporti di forza però erano a favore della Polonia, che cercò di imporre un proprio fantoccio alla testa del Granducato dopo la morte di Ivan IV il Terribile. Lo spacciarono ai russi come il figlio (in realtà morto da tempo) del trapassato Granduca. I russi lo fecero a pezzi, lo cremarono e con il cannone ne spararono le ceneri dalle mura del Cremlino in direzione ovest, verso Varsavia.

Sotto le mura di Vienna

L’apice della gloria la Polonia lo toccò una mattina di settembre del 1683, quando il suo sovrano Giovanni Sobieski, nel nome di Dio, portò le sue cavallerie alate (proprio così: combattevano con lunghe aste ornate di penne fissate all’altezza della scapola) a far strame dei turchi che assediavano Vienna e rischiavano seriamente di conquistarla, magari calando poi a Roma. Scendendo dalle colline a ridosso delle mura, gli ussari di Re Giovanni liberarono d’un colpo tutta Europa dal suo incubo secolare, e in più si tolsero il gusto di ridare la vita al rantolante Asburgo, che pure tra i loro nemici naturali era il terzo.

L’Asburgo non manifestò alcuna riconoscenza: iniziò a dire che il merito non dei polacchi era, ma delle truppe imperiali guidate dal Duca Carlo di Lorena. L’ingrato.

A riprova che a far del bene agli asini si prendono dei calci, tempo qualche decennio e la Polonia se la dividevano fino all’ultimo ettaro di terreno tra russi, tedeschi ed austriaci. E mica una sola volta. Nel Settecento le spartizioni furono tre, nell’Ottocento le rivolte almeno due.

La Rivoluzione del Signor de la Martine e il senso di Bismarck per i lupi

La prima fu nel 1848: bruciava l’Europa d’ardori liberali, la Francia cacciava Carlo X e la Polonia tentò di scrollarsi di dosso il giogo dello Zar. La nutritissima colonia di esuli polacchi che soggiornava a Parigi si convinse che la Francia rivoluzionaria avrebbe ascoltato il grido di dolore degli insorti. Scambiandolo per un Napoleone a Marengo, gli esuli polacchi si rivolsero al ministro degli esteri del governo rivoluzionario, il poeta Alphonse de Lamartine. “Signori”, rispose lui, “amo la Rivoluzione, amo la Polonia, ma soprattutto amo la Francia”. Gli insorti vennero massacrati.

Quindici anni più tardi la storia si replicò, ma con attori diversi. Si ribellarono ancora i polacchi schiavizzati dai russi. A Berlino governava da pochi mesi un uomo di ferro, Otto von Bismarck.

Alla notizia dell’insurrezione la prima cosa che fece fu raggiungere un accordo con lo Zar, la Convenzione di Alvensleben, che chiudeva i confini tra i due imperi. Cioè: lungo il cuore della Polonia. Lo Zar mise gli insorti all’angolo, e ancora una volta immerse le mani nel sangue. Quanto a Bismarck, a chi lo criticava rispose: “Io non ho mica niente contro i polacchi. Non ho niente nemmeno contro i lupi. Ma se per la strada incontro un lupo, gli sparo”.

La marcia di Dabrowski

C’è da stupirsi se, dopo tutto questo, il Generale Pilsudski non riusciva a trattenere un sorriso, dando al mondo la notizia della rinascita della Polonia? Mentre scriveva, non a caso, per le strade di Varsavia si iniziava a cantare “La Polonia non è morta finché noi vivremo/ Bonaparte ci ha insegnato a vincere/ Dalla terra d‘Italia marcia, Dabrowski, fino alla tua Polonia”.

Jan Dabrowski, che nel 1797 era a Novi con Napoleone, divenne così l’emblema nazionale di un Paese che, per avere uno sbocco al mare, doveva inglobare la città di Danzica, che i tedeschi reclamavano come propria. Ed è lì che si arrivò alla quarta spartizione della Polonia, tra nazisti e bolscevichi. Era il 1939: quando il mondo iniziò a morire per Danzica.

I russi, ancora loro

La reazione dei polacchi al comunismo fu doppiamente allergica: erano tornati i russi, e per di più intenzionatissimi a riprendere, con la scusa del marxismo-leninismo, la campagna di sradicamento della loro cultura nazionale. Fu così che la Polonia divenne il Paese più cattolico del Mondo.

Nel 1978, a sorpresa, si affacciò dalla Loggia di San Pietro il primo papa straniero degli ultimi 500 anni. Era il cardinale di Cracovia, storicamente capitale della Galizia che i russi avevano tolto ai polacchi nel 1939, e mai più restituito. Due anni dopo un elettricista dalla vaga somiglianza con Asterix, Lech Walesa, saliva su un cancello dei cantieri Lenin di Danzica (sì, ancora Danzica) e proclamava lo sciopero generale. Solo i polacchi avrebbero potuto pensare di sconfiggere i comunisti usando un sindacato. Ma siccome era una cosa impossibile, la fecero.Quel sindacato si chiamava Solidarnosc, che in polacco – facie intuirlo – vuol dire solidarietà.

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Fidel Castro con Papa Giovanni Paolo II (Afp) 

L’incredibile

Nel settembre 1989 il Time esclamava in copertina, ricordando sopra la testata il 50mo dell’occupazione di Danzica,: “Incredibile: i comunisti in Polonia aprono all’opposizione democratica”. E il meglio doveva ancora venire.

Nel suo pontificato lungo un quarto di secolo Giovanni Paolo II ebbe ragione di un attentatore, del comunismo e di tutta l’Unione Sovietica. Quando morì, nel 2005, la sua Polonia aveva insegnato alle altre nazioni cosa voglia dire avere la pelle dura.

Ma quando Wojtyla tornò alla casa del Padre la Polonia si ritrovò doppiamente orfana: del suo Papa, e di una causa. In più, da pochi mesi, era entrata in quell’Europa figlia in qualche modo della crisi di Danzica, ed intenzionata a fare di Danzica un borgo grazioso e soprattutto pacifico, fino a scadere nel grigiore. Peggio ancora: un borgo multietnico e multiculturale. Una città – ed un Paese intero – dove nessuno sarebbe stato più solo polacco, o solo tedesco, o solo austriaco. Ma unicamente, inevitabilmente, ineluttabilmente, europeo. Incredibile. Un orrore. E allora uno che ha combattuto a fare tutta la vita?

Non deve stupire se da allora la Polonia è divenuta la capofila degli euroscettici, pur dovendo all’Unione tanto del proprio sviluppo economico e rafforzamento democratico. L’Europa laicista, che cerca di imporre a questa sua figlia di indubbio temperamento un matrimonio non voluto con gay, abortisti e migranti. Che poi sono quasi tutti islamici, come i turchi di Giovanni Sobieski. Varsavia non ne vuole neanche uno, e finora non c’è stato verso di farle ammorbidire la posizione. Anche se qui, magari, qualche peccatuccio di omessa memoria, oltre che di omessa Solidarietà,  le si potrebbe rimproverare. Non era molto tempo fa, infatti, che i polacchi, proprio loro, erano divenuti simbolo dell’immigrazione malamente accettata. E che il 49,9 percento dei francesi votava contro il Trattato di Nizza, reo di aprire le porte dell’Unione a quella figura sconosciuta e vagamente inquietante che era l‘Idraulico Polacco. Categoria, questa, dello spirito e dell’economia assurta a simbolo della manodopera a buon mercato che avrebbe invaso l’orticello del piccolo artigiano transalpino. Ma quella è la Francia, madre di tutti i sovranismi. Mentre come la Polonia, in fondo, non c’è nessuno.

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