Cronaca

Tre persone sono state arrestate a Messina per le torture sui migranti prigionieri in Libia

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Hamza Turkia / NurPhoto 

Libia – migranti (Afp) 

Viene da evocarla, la terribile invettiva di Primo Levi: “Considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no…”. Già perché nel campo di prigionia di Zawiya, città della Libia nord-occidentale, nella regione della Tripolitania, sembra di sentirlo il tormentato scrittore ebreo sopravvissuto alla Shoah, mentre un superstite del lager libico fissa su parole inquiete sguardi ancora pieni d’orrore: “Ho visto che un carceriere, tale Mohammed l’egiziano, una volta, ha sparato e colpito alle gambe un nigeriano, colpevole di aver preso un pezzo di pane. Ho avuto modo di vedere che, tante volte, nel corso della giornata, le donne venivano prelevate dai carcerieri per essere violentate”. 

La tortura, sistematica, le botte e percosse con bastoni, tubi di gomma, cavi elettrici. Ma anche privazione di cibo e acqua. Esseri umani resi schiavi e costretti a dissetarsi con acqua salmastra. Ricatti, stupri… e chi non pagava i carcerieri veniva venduto o ucciso. La tortura, in particolare, è il reato che la Dda di Palermo guidata da Francesco Lo Voi contesta a tre fermati dai poliziotti della Squadra Mobile di Agrigento, dopo che nel 2017 questa fattispecie di reato è stato introdotto nel codice penale italiano. “E’ la prima volta che, in tema d’immigrazione, viene contestato”, sottolineano gli investigatori della Valle dei Templi. 

I tre fermati sono Mohamed Condè, detto Suarez, 22 anni della Guinea, Hameda Ahmed, 26 anni, egiziana e il connazionale Mahmoud Ashuia, 24 anni, presi tutti nell’hotspot di Messina. I fermati sono accusati di associazione a delinquere finalizzata a reati quali tratta di persone, violenza sessuale, tortura, omicidio, sequestro di persona a scopo di estorsione, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.  

Dalla prigione libica, allestita in una ex base militare, si usciva solamente se si pagava il riscatto. Chi non pagava veniva picchiato e torturato. “Io, per essere liberato, ho pagato 4.500 dinari libici”, racconta un altro dei migranti, giunto a Lampedusa ad inizio luglio scorso, dopo essere stato salvato da nave ‘Alex’ di Mediterranea Saving Humans. “C’erano anche donne e bambini. Sostanzialmente era una prigione della polizia libica. In questa struttura – racconta uno dei migranti ai poliziotti – nonostante ci fossero funzionari dell’Oim, l’Organizzazione internazioanle per le migrazioni, la stragrande maggioranza di noi migranti pativa la fame e la sete. Nessuno veniva curato e quindi lasciato morire in assenza di cure mediche. Ho assistito alla morte di tanti migranti non curati”. 

Mohamed Condè si occupava di imprigionare i migranti, di torturarli e di riscuotere i riscatti che venivano richiesti ai familiari dei detenuti per la loro liberazione, fornendo anche il cellulare con cui potevano contattare i parenti; Hameda era il carceriere e torturatore; Ashuia il guardiano della prigione di Zawiya e picchiava brutalmente i migranti anche con un fucile.

“L’associazione capeggiata da tale Ossama” raccontano gli investigatori “è specializzata nella gestione di un illegale centro di prigionia, collocato in una ex base militare della città libica di Zawyia, dove centinaia di migranti, che tentavano di imbarcarsi per raggiungere le coste italiane, venivano privati della libertà personale e sottoposti a sistematiche vessazioni e atrocità al fine di ottenere dai parenti somme denaro quale prezzo della liberazione e della loro partenza verso l’Italia”. Chi non pagava veniva venduto ad altri trafficanti di uomini per il loro sfruttamento sessuale e lavorativo o talora ucciso”.

Una ulteriore conferma, sottolinea il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, “delle inumani condizioni di vita all’interno dei centri di detenzione libici”. Così, avverte: “Si pone la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l’umanità“. 

Un impegno cui nessuno può sottrarsi, perché tutti ormai sanno cosa accade nei lager libici. Ritorna l’invettiva di Primo Levi: “Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore, stando in casa, andando per via, coricandovi, alzandovi. Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”.​

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