AGI – Un romanzo necessario “Sorelle spaiate”, esordio nella narrativa di Lucia Esposito, giornalista che ha cominciato trent’anni fa trasferendosi da Napoli, la sua città, a Milano. Necessario perché distende in un plot palpitante la fine di una prostituta albanese squartata con l’ascia dal suo protettore. Un fattaccio di nera come tanti altri, fa spallucce il solito capocronista che relega la notizia in poco più che un trafiletto. E invece no, Lucia Esposito s’incaponisce, bisogna parlarne di come funziona il mercato delle donne, e bisogna scendere nell’abisso, dove il degrado delle schiave non ha fondo. Parlarne ora che una puttana ammazzata fa meno notizia di un femminicidio tra coniugi, fidanzati, amanti, ma sempre femminicidio è.
Un romanzo, dunque. Però dietro c’è una storia vera. Viola Valenti, stagista per un’estate in un quotidiano all’ombra della Madonnina, è la protagonista. Ma è pure l’alter ego letterario di Lucia Esposito. Un personaggio di carta, certo, tuttavia il nocciolo della sua coscienza, il terminale di un senso di colpa che si porta appresso appunto da quando anche lei, Lucia, entra per la prima volta nella redazione di un quotidiano. Perché Ershela, la vittima scannata come una pecora che reca in grembo l’agnellino, Lucia l’ha davvero conosciuta, acme di una sua inchiesta sulle ragazze da marciapiede. Un prete che gira di notte per toglierle dalla strada le ha fornito l’occasione di intervistarla. Ed Ershela ha tirato fuori come in un sospiro profondo, senza pause, tutto quello che ha passato.
Un fidanzato che la porta via dall’Albania promettendo di sposarla, l’approdo a Otranto, ma al posto dell’abito bianco le dà tacchi alti, gonna corta, rossetto da svergognata. Dalla Puglia a Torino, da Torino a Milano, da Milano a Rimini, spartita con un altro magnaccia. La disperazione spezzata soltanto dalle lettere che ogni giorno Ershela scrive ad Alina, l’amatissima sorella adolescente lasciata in Albania. Mai spedite, nascoste sotto il materasso, illudendosi un giorno di consegnarle di persona. L’epistolario serve ad Ershela anche per non finire di sperare: “Scrivere mi aiuta a ricordare, mi costringe a pensare”, annota. Sennonché, quel malloppo di fogli vergati in albanese finiscono in mano a Viola-Lucia, consegnati dalla compagna di segregazione di Ershela, una nigeriana, quando la ragazza albanese è ormai cadavere reclamato da nessuno.
La promessa della cronista è che li consegnerà ad Alina, portata anche lei via dalla sua terra, trapiantata ad Albissola, per fare lo stesso mestiere della sorella. Lucia però quelle lettere le consegna alla polizia, dopo averle fotocopiate per farsele tradurre. E’ il vulnus che l’ha accompagnata finora, il rimorso del tradimento nei confronti di una “sorella” dal dna diverso, perché tale è diventata durante l’intervista: partita dalla sua terra lo stesso giorno in cui Viola-Lucia lasciava la famiglia alla volta dell’avventura milanese.
Le lettere di Ershela – che squarciano l’ingenuità di una giovane martire, i tentativi di riscatto, la fuga tragica, la repulsione per il materasso lercio dove dormire e gli aliti di sconosciuti addosso, il dolore delle percosse, la ribellione a una maternità frutto di uno stupro e poi l’accettazione di quella vita ogni giorno più vispa nella sua pancia – quelle lettere sono uno dei due piani del racconto. L’altro è la vita di Viola: dalla prima volta che viene catapultata dal capo sulla scena di un delitto, un morto in strada e la dritta che le dà un cronista “cane da tartufo” – uno che “sbuffa dentro la pipa” – all’inchiesta nel mondo delle escort, dove ha il coraggio di infiltrarsi; dall’amicizia con un bel collega che invece s’innamora perso di lei alla relazione deludente con un tipo affascinante ma con la fede al dito. Soprattutto tiene campo il legame problematico con Chiara, la sorella vera, una snob sposata presto a un blasonato ricco, perfetta, bella, adeguata. Però nei suoi confronti invariabilmente algida, estranea, “spaiata come succede con i calzini”. E’ sul grumo delle contraddizioni familiari che Viola impara a lavorare grazie anche all’input di Ershela: “Le cose, belle o brutte, bisogna sempre dirle, perché i silenzi costruiscono muri”.
L’epilogo è una serie di colpi di scena, diverso da quello realmente accaduto alle lettere della schiava venuta dall’altra sponda dell’Adriatico, quando l’Italia era percepita come “Lamerica”. “Non potendo modificare il mio passato, ho scritto questo romanzo per cambiare il finale della mia storia”, conclude Esposito in fondo al libro. Il quale è fiction e sincerità allo stesso tempo: con sprazzi ironici (il veterano cronista di nera “contempla il beccuccio della pipa come una bocca da baciare”), intermezzi partenopei ora sapidi, ora incantati (in una via di Spaccanapoli l’epifania di un uomo che “vende abbracci” e davvero per una moneta deposta nel suo cestino ti stringe a sé). E la scrittura è svelta, fulminante, però s’illumina talvolta di immagini alate.
Ma c’è un ulteriore strato, in questo romanzo-verità. Esposito, che guida la Terza Pagina di “Libero”, compie un’operazione di metagiornalismo. Una piccola crociata su quanto succede nelle redazioni, contro l’ovvietà delle notizie messe in pagina solo se sono capaci di “acchiappare” il lettore: magari l’ennesimo avvistamento di marziani. Fuffa. Ma intanto “nei giornali vale la regola Strano? Allora funziona. Deve essere per forza tutto divertente e, soprattutto, carino”. Anche per questo la notizia di una prostituta incinta squarciata con l’ascia non merita più di trenta righe “per dovere di cronaca e poi tutto è sigillato per bene nel freezer della dimenticanza”. E qui torniamo all’attacco. “Sorelle spaiate” (Giunti, 252 pagine, 15,90 euro) è un libro necessario.
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