Cronaca

Quindici anni fa l’addio a Wojtyla, il santo che fermò gli unni

Le ultime ore di Karol Wojtyla trascorsero come tutta la sua vita: in Polonia. E siccome la Polonia non la vedeva più dal 2002, epoca del suo ultimo viaggio nel paese natale, fu essa ad accompagnarlo verso il momento del Ritorno. Raccontano infatti le cronache di quindici anni fa che quando Giovanni Paolo II lasciò una Terra che aveva contribuito non poco a cambiare, attorno a lui vi fossero, a recitare il rosario, le suore che avevano cura della sua vita quotidiana. Polacche. Il suo segretario, Stanislao Dziwisz, polacco.  Il cardinale Jaworsky, l’arcivescovo Rylko, il vescovo Mokrzicky e l’amico Styczen. Tutti polacchi. Unica eccezione il medico personale, l’archiatra professor Buzzonetti.

Tutti gli altri vennero avvertiti solo un attimo più tardi: il cardinal Sodano, che pure era segretario di Stato, il cardinal Somalo, che pure era il Camerlengo. Persino Joseph Ratzinger, il braccio destro e forse l’anima a lui più vicina, giunse in un secondo momento. Per non dire di Camillo Ruini.

Al Camerlengo fu lasciata l’incombenza di pronunciare la frase di rito, “Vere Papa mortuus est”: il papa è effettivamente morto. Ma l’ultima parola del pontefice, un “amen” sussurrato con un fil di voce al termine di una preghiera, il Camerlengo non l’aveva potuta sentire. Gli restò solo da rispettare la tradizione che vuole un velo di lino essere delicatamente deposto sul volto del defunto, mentre Buzzonetti espletava pratiche più scientificamente appropriate per constatare il decesso.

Come Leone al Mincio

Questa però è solo la cronaca dell’ultimo giorno di Giovanni Paolo II, il 2 aprile 2005: la storia lui l’aveva già scritta in 27 lunghi anni a combattere come una fiera. Non a caso non passarono nemmeno poche ore che qualcuno gli attribuì il titolo di Magno, che la Chiesa riserva ai più grandi: Gregorio, che riempì di sé e di Cristo il vuoto dell’Alto Medioevo; Leone, che dette al vescovo di Roma primazia su quello di Costantinopoli e, soprattutto, fermò Attila sulle rive del Mincio.

Anche Wojtyla bloccò i suoi unni, che nel tardo XX secolo si chiamavano Comunisti e venivano anch’essi dalle steppe dell’Asia centrale. Come un vero santo altomedievale, ci aveva vissuto in mezzo prima di giungere a Roma e divenire un Difensore della Fede.  Li conosceva bene, quindi, nei loro punti di forza e nelle loro debolezze. Sfruttò le seconde e comprese i primi, perché per lui il comunismo era il Male come lo era stato il nazismo conosciuto da ragazzo, ma l’esigenza di giustizia sociale una legittima richiesta del corpo e dello spirito. Solo che quella era la risposta antropologicamente sbagliata.

“Non abbiate paura”, disse a un mondo che all’epoca tremava schiacciata dall’incubo dello scontro atomico (e Francesco non a caso sta ripetendo lo stesso messaggio in questi giorni segnati dalla pandemia di coronavirus). Non abbiate paura, ripetè, “anzi: spalancate le porte a Cristo”. Ecco la risposta antropologicamente giusta. L’unica possibile.

Solo una fede come la sua poteva compiere l’impresa, e infatti la compì. Perché c’è chi con la fede smuove le montagne, ma Karol Wojtyla con la sua fede le montagne le spaccava.

La lunga agonia del Santo che era attore

Tra poco saranno anche cento anni esatti dalla sua nascita: manca un mese. C’è da aspettarsi un profluvio di commemorazioni, soprattutto nell’ipotesi (assai remota, a occhio e croce) che la tempesta epidemica attuale sia nel frattempo passata. Nella speranza che le cose vadano meglio, rinunciamo quindi allo spoiler rievocativo: tra poche settimane se ne parlerà meglio, e più a lungo.

Soffermiamoci piuttosto su quello che tra poco nessuno ricorderà, e cioè quello che accadde quando Wojtyla morì. Si tratta di materia ugualmente interessante.  

La sua agonia fu lunga, e prevista. L’uomo era giovane al momento dell’elezione (56 anni) ma anziano e molto provato al momento di lasciarci. Ventisette anni di pontificato ne fanno il pontefice più a lungo seduto sulla cattedra di Pietro dopo Pio IX e Pietro stesso. Lui, poi, ebbe la vita segnata da un attentato ordito proprio Oltrecortina. Gli unni erano feroci.

Tutti lo videro passare nel tempo, in modo non repentino ma percepibile, da una vigoria di scalatore sciatore nuotatore alla decadenza del parkinson, sicché alla fine non poteva nemmeno parlare e la cosa lo tormentò più dello stesso male. Perché di cose al mondo uscito dalla vittoria dell’’89 lui non aveva da dire molte, e magari non tutte piacevoli. L’importanza della parola lui la conosceva benissimo, del resto, e non solo perché era uomo di Chiesa.

Giovanni Paolo II, si ricordi, da giovane aveva fatto l’attore e questo lo aveva aiutato a capire l’importanza dell’essere non solo ascoltati, ma prima ancora sentiti, e del colpire chi ti ascolta anche con gesti per l’appunto plateali. Un comunicatore formidabile, con in più un messaggio che a cercarne il paragone non se ne trova uno che sia uno.

Alla fine, grazie anche all’aiuto di un maestro dell’arte della comunicazione istituzionale come il suo portavoce, Navarro Valls, era divenuto qualcosa di assimilabile – si parva licet eccetera eccetera – ad un opinion leader, ma molto ma molto più grande, profondo e stentoreo. Lo ascoltavano tutti, lo amavano quasi tutti, lo piansero in milioni.

Milioni su milioni

In milioni vennero a Roma, anche perché l’agonia come si diceva lunga e creò un clima di coinvolgimento generale. Quando, alle 21,37 di quel 2 aprile, il papa chiuse gli occhi la reazione emotiva fu a livello mondiale, complici anche i media che nel frattempo avevano perso il gusto della compostezza. Il primo giorno nell’Urbe arrivarono in ottocentomila, il secondo un milione, poi il terzo due e poi ancora tre e mezzo.

SI rammentino le parole del prefetto di allora, Achille Serra: “Roma è stata sottoposta allo stress di un evento il più grande della sua storia, moltiplicato per dieci”. Il prefetto si sbagliava per difetto: i lanzichenecchi erano stati una decina di migliaia, i visigoti del 410 due o tremila, i bersaglieri e le altre truppe italiane a Porta Pia 50.000.  

 L’emergenza (perché di vera e propria emergenza si trattò) venne gestita in buona parte dalla Protezione Civile, e anche qui il parallelo con l’oggi sorge spontaneo. Gli annali riferiscono che, in mezzo a quella massa informe ed emotivamente di uomini, donne, religiosi, suore, vecchiette e giovani che si accalcavano, si spingevano, avevano fame e sete e altri bisogni primari, non si registrò nemmeno una gamba rotta.

Fu giudicato il primo miracolo di Giovanni Paolo II “Santo subito”. Ma siccome la Provvidenza provvede poggiandosi sulle gambe degli uomini, sarebbe ingeneroso non rilevare che l’Italia e Roma in particolare quella volta dettero dimostrazione di capacità ed efficienza come nessun altro al mondo. Un successo che nessuno ha mai voluto loro riconoscere, e la cosa dispiace.

 Ad ogni modo, quando si celebrarono i funerali sul sagrato di San Pietro, in molti unirono al sincero dolore anche una certa diminuzione della tensione. La folla da quel momento sarebbe defluita e l’emergenza passata.

“Seppellite il suo cuore a Cracovia”

Rimangono impresse nella memoria, le immagini di quel funerale. Il vento che sfoglia le pagine del Vangelo ai piedi di un vecchio ormai magrissimo vestito di abiti sacri troppo grandi per lui. Troppo grandi i paramenti, troppo grande la tiara, troppo grandi le scarpe nere che gli restituivano l’aspetto di un contadino a disagio nel vestito della festa.  

Ma quest’ultima impressione era sbagliata, perché Giovanni Paolo II in quel momento era già una reliquia, ed il suo cadavere già sembrava il corpo incorrotto di un santo medievale.

Infatti non passerà che pochissimo tempo che don Stanislao, il suo segretario personale, chiederà di riportare a Cracovia almeno il cuore di Wojtyla, a riposare nella sua terra. Richiesta rimasta inevasa, e non solo perché la pratica ricordava troppo quella dei re di Francia a Saint-Denis, per non dire di Luigi IX all’ottava crociata.

Il cuore di Giovanni Paolo II è rimasto nelle grotte vaticane, a poca distanza da quello di Giovanni XXIII, soprattutto per un altro motivo. E cioè che un papa non solo è prima di ogni altra cosa vescovo di Roma, ma il suo cuore appartiene al mondo. Anche se in Polonia è rimasto sempre, fino all’ultimo battito.

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