Cronaca

Per la Cassazione sono infondate le misure cautelari per il sindaco di Bibbiano

Caso Bibbiano sindaco Carletti Cassazione

Minichiello / AGF 

Andrea Carletti

Non vi sono “esigenze cautelari” basate su “requisiti della concretezza e dell’attualità” nei confronti del sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Lo scrive la sesta sezione penale della Cassazione, spiegando perché, il 3 dicembre scorso, revocò ogni misura cautelare per Carletti annullando senza rinvio l’ordinanza del Riesame di Bologna che aveva sostituito con l’obbligo di dimora gli arresti domiciliari a cui era stato sottoposto il primo cittadino del comune emiliano nell’ambito dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti.

Nessun pericolo di reiterazione del reato, né di inquinamento probatorio, rileva la Cassazione, osservando, nella sentenza depositata oggi, che il Riesame non ha indicato “elementi concreti dai quali sia possibile desumere le ragioni della persistente effettività del ravvisato ‘periculum libertatis'”.

I giudici di piazza Cavour, infatti, affermano che “tali non possono ritenersi” gli elementi relativi “all’interessamento che Carletti avrebbe a suo tempo mostrato per la ricerca di un immobile da adibire a nuova sede per la prosecuzione dell’attività di psicoterapia svolta da altri indagati nei confronti dei minori in carico al servizio sociale”, temporalmente collocati “alla fine dell’anno 2018”, e “posti in relazione con un altro passaggio motivazionale, di non univoca e quanto meno dubbia interpretazione” tratto dalle dichiarazioni che Carletti rese in un interrogatorio del 12 agosto 2019, quando “genericamente e in via del tutto ipotetica – scrive la Cassazione – si limitò ad affermare che, qualora fosse tornato a rivestire la carica di sindaco, avrebbe potuto prendere in considerazione la proposta, proveniente da un interlocutore serio ed onesto, di un investimento su un terreno privato per la progettazione di una struttura, parallela a quella gestita dalla Asl per la tutela di minori ed anziani”.

A questa considerazione, “di natura meramente congetturale e di per sé non sintomatica della intenzione di commettere ulteriori condotte delittuose dello stesso tipo di quelle per cui si procede”, il provvedimento impugnato, secondo la Corte, “ha illogicamente ricollegato la manifestazione di un atteggiamento volitivo orientato a proseguire l’esercizio delle funzioni di sindaco ‘con un metodo d’azione volto alla mera realizzazione ai fini politici, indifferente alle regole e alla normativa sottostante'”. 

Inoltre, “per affermare la persistenza del pericolo di reiterazione criminosa in relazione alla potenziale commissione di reati connessi alla funzione pubblica in concreto esercitata dall’indagato”, aggiunge la Suprema Corte, il Riesame “avrebbe dovuto fornire adeguata motivazione, a fronte della, pur evidenziata, circostanza di fatto attinente all’intervenuta attribuzione ad altri delle funzioni di delegato per le politiche relative ai servizi sociali dell’Unione Comuni Val d’Enza, dell’irrilevanza di tale elemento obiettivo in rapporto alla posizione soggettiva da lui in concreto rivestita”.

Quanto, poi, al pericolo di inquinamento delle prove, i passaggi motivazionali dell’ordinanza del Riesame risultano, afferma la Cassazione, “privi di una valutazione prognostica riferita in concreto all’attività di indagine in corso che rischierebbe di subire alterazioni o manipolazioni da parte dell’indagato”. 

Il provvedimento impugnato, “pur ammettendo l’inesistenza di concreti comportamenti a tal fine posti in essere dall’indagato, ne ha contraddittoriamente ravvisato – si legge nella sentenza depositata oggi – ‘una possibile influenza’ sulle persone ‘a lui vicine nell’ambito politico-amministrativo’ in forza di ‘rapporti di amicizia e colleganza politica ben radicati nel tempo e difficilmente scalfibili’, per poi inferirne, astrattamente e in assenza di specifici elementi di collegamento storico-fattuale con la fase procedimentale in atto, il pericolo di possibili ‘ripercussioni negative sulle indagini’, senza spiegare se vi siano, e come in concreto siano declinabili, le ragioni dell’ipotizzata interferenza con il regolare svolgimento di attività investigative ormai da tempo avviate”.

Invece, conclude la Corte, “la concretezza e l’attualità del pericolo di inquinamento probatorio deve essere esclusa qualora l’indagato non abbia tenuto, per un protratto lasso temporale dal momento della conoscenza delle indagini, alcuna condotta volta a pregiudicare l’integrità o la genuinità della prova”

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