Cronaca

Nuova condanna per Raffaele Marra, ex fedelissimo di Raggi

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Non sono finiti i guai giudiziari per Raffaele Marra, ex capo del Personale in Campidoglio nonché ex ‘fedelissimo’ della sindaca di Roma. Il reato di abuso d’ufficio, legato alla ‘mancata astensione nell’ambito della procedura di interpello’ che portò nell’autunno del 2016 alla nomina (prima congelata e poi revocata da Virginia Raggi) di suo fratello Renato a capo della Direzione Turismo (con un aumento dello stipendio pari a 20 mila euro lordi l’anno, passando da una prima a una terza fascia retributiva), gli è costata una condanna a un anno e 4 mesi di reclusione. Condanna che si va ad aggiungere a quella già rimediata in primo grado (a 3 anni e mezzo) per corruzione in concorso con l’imprenditore Sergio Scarpellini.

L’inchiesta segnò per Marra l’inizio di un declino culminato con l’arresto del dicembre del 2016 e determinò conseguenze pesanti per l’amministrazione pentastellata che liquidò il funzionario come ‘solo uno dei 23mila dipendenti comunali’. Ad incastrare Marra, in particolare, fu un’intercettazione nella quale a Ginevra Lavarello, segretaria dell’imprenditore (poi deceduto il 20 novembre 2018), disse di essere ‘a disposizione’. Al centro dell’inchiesta, ben 367 mila euro che Marra avrebbe ricevuto da Scarpellini nel 2013 per acquistare un appartamento, intestato a sua moglie, in via dei Prati Fiscali. Quei soldi, secondo la procura, rappresentavano la tangente incassata per aver messo la sua funzione pubblica ‘nelle mani’ del costruttore.

Un processo che coinvolse anche la sindaca

La nomina del fratello Renato, che era vicecomandante della Polizia Locale, travolse invece la stessa sindaca, assolta il 10 novembre del 2018 dal tribunale, perché il fatto non costituisce reato, dall’accusa di falso in atto pubblico. Virginia Raggi finì sotto processo perché avrebbe dichiarato il falso alla funzionaria responsabile dell’Anticorruzione sostenendo che nella nomina di Renato Marra il fratello Raffaele si fosse limitato a seguire pedissequamente le sue indicazioni senza partecipare alle fasi istruttorie della procedura.

In sede di requisitoria, i pm chiesero la sua condanna a dieci mesi di reclusione ma per il giudice Roberto Ranazzi, Virginia Raggi fu vittima di “un raggiro ordito ai suoi danni”, ideato dai fratelli Marra, “con la compartecipazione incolpevole dell’assessore al Commercio Adriano Meloni e dell’avvocato Antonio De Santis”, nella veste di quale delegato della sindaca per le relazione sindacali. Quella nomina sarebbe stata studiata a tavolino dai Marra già nell’estate di quell’anno, e caldeggiata al presidente del consiglio comunale Marcello De Vito, per “aggirare il diniego di Raggi” che alla luce della stretta parentela tra i due fratelli e del ruolo rivestito da Raffaele nell’amministrazione, trovava inopportuno che Renato venisse promosso capo o vicecapo della Polizia locale di Roma Capitale.

Nonostante l’assoluzione dell’imputata, però, lo stesso giudice rilevò che Raffaele Marra “partecipò alla fase istruttoria della nomina del fratello” e che “il suo contributo” fu “fondamentale perché altrimenti quella nomina non vi sarebbe stata”. Per il tribunale, poi, lo stesso dirigente non prese parte “alla valutazione delle domande e dei curricula e alla decisione sulle nomine” perché effettivamente dall’istruttoria dibattimentale emerse “che ogni valutazione e decisione fu effettuata in piena autonomia dalla sindaca”.

Per il giudice, in questa vicenda risultò decisiva la riunione del 26 ottobre del 2016, tenutasi informalmente nell’ufficio di Raffaele Marra “in assenza e all’insaputa di Virginia Raggi”. Cosi’ facendo Raffaele Marra adottò per il fratello un comportamento preferenziale che determinò un’ipotesi di vantaggio economico ingiusto in relazione alla mancata chance degli altri concorrenti interessati a quel posto. Quella riunione si chiuse con gradimento di Meloni per la scelta del nome e la comunicazione della notizia a Renato che, avendo certezza del posto, a quel punto mandò la domanda. Un’impostazione che la procura di Roma non ha condiviso, tanto da impugnare la sentenza in appello.

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