Cronaca

Il racconto dalla “trincea” del pronto soccorso di un ospedale di Milano

“Telefonare ai parenti, tutti i giorni, anche 4 volte al giorno, e comunicare il decesso del nonno, del papà, della moglie, e dall’altro lato la disperazione di chi ascolta”. È una delle cose emotivamente più difficili di questo periodo, per Greta Rossignoli, dottoressa dell’ospedale San Paolo di Milano: “può sembrare marginale rispetto a vederli morire ma anche comunicare ai parenti che il virus si è portato via i loro cari è devastante”, al di là della “rabbia e del senso di impotenza” che certamente si prova nel vedere persone che non ce la fanno.

Greta, 30 anni carichi di energia e amore per il suo lavoro, racconta all’AGI la trincea del pronto soccorso, dove lavora da due anni e mezzo. E che mai in questi mesi ha pensato di lasciare, anzi: “nei momenti difficili la nave non si abbandona, si abbraccia stretta”.

Lei con un contratto con partita iva, non ci pensa proprio a fermarsi anche se si è “trovata nell’occhio del ciclone”. Il momento è troppo importante. Al San Paolo “nessuno di noi è crollato”

Per poter far fronte al numero elevatissimo di pazienti Covid, l’ospedale ha riallestito il vecchio pronto soccorso, che da pochi mesi era stato chiuso, dopo l’inaugurazione di uno spazio nuovo, più attrezzato”. E tutti hanno collaborato “allungando un po’ i turni – continua la dottoressa – . Io, come tutti, a marzo avrò fatto almeno 40 ore in più rispetto al solito. Ma adesso siamo ben organizzati”.

In questi due mesi, l’ospedale è diventato ancora di più la loro casa. “Mi sono messa in autoisolamento, non vedo nessuno dal 20 febbraio – continua Rossignoli – i miei amici sono i miei colleghi”. E i pazienti. “Difficile non affezionarsi, soprattutto agli anziani, sono i più fragili. Non hanno nessuno accanto, nessuno può entrare a fargli visita. Sono soli e noi siamo un po’ la loro famiglia, li vediamo e li visitiamo tutti i giorni”.

“La nipote del signor Cosmo – racconta – mi aveva chiesto di fare una videochiamata con lo zio con un tablet che abbiamo a disposizione. Lui, anche se non respirava molto bene, ha accettato. L’abbiamo fatta, e poi la nipote mi ha chiesto di leggergli un messaggio che gli aveva mandato. Era una lettera di addio, entrambi erano abbastanza consapevoli del fatto che non si sarebbero più rivisti. Ecco, sono contenta di averli ‘aiutati’ ma finisci piangendo anche tu. Anche se davanti a loro eviti. Cosmo è morto ieri”. Di storie così purtroppo ce ne sono tante, e anche più tristi: “con interi nuclei familiari distrutti”.

“Giorni fa è arrivata al Pronto soccorso, una giovane donna di 30 anni, con la madre. Il padre era morto da 48 ore. Lei è stata messa in osservazione e la madre ricoverata. Poi si sono aggravate. La giovane è stata intubata e la madre è morta. L’unico parente è un cugino. Non riesco a immaginare cosa potrà provare questa ragazza se e quando si sveglierà”. Quasi a scopo terapeutico la dottoressa Rossignoli sta tenendo un diario della sua ‘personale pandemia’.

In un passaggio si domanda “cosa prova un normalissimo umilissimo e giovane medico di pronto soccorso di fronte a tutto questo”. “Ebbene, provo tante cose che fatico a mettere in ordine nella mia testa – spiega -. C’è il senso di impotenza che si somma al timore che i propri cari siano i prossimi pazienti, controbilanciato da un inusuale orgoglio di sentirsi dalla parte giusta a combattere una battaglia vitale, l’onore e il privilegio di comporre un minuscolo pezzo dell’enorme mosaico della sanità che lotta senza sosta, senza adeguati mezzi e senza giusta preparazione, e fa comunque la differenza. Nella drammaticità, a tratti sono felice lo stesso, e ora che state tutti a casa, lo sono ancora di più”.

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