Cronaca

La Coalizione italiana per lo stop ai bambini soldato non c’è più

bambini soldato

Stefanie Glinski / AFP 

Un bambino soldato del Sudan

C’era una volta la Coalizione italiana per lo stop ai bambini soldato, un gruppo di nove associazioni che il 19 aprile del 1999 firmarono a Roma un documento per sancire l’obiettivo di “tutelare l’infanzia nelle condizioni di guerra e nei conflitti armati ed estendere le preoccupazioni a tutti gli abusi di cui sono vittime i bambini e le bambine”.

Vent’anni dopo la sua istituzione, però, la coalizione non c’è più: le sue associazioni continuano a operare in diversi teatri di guerra, fornendo assistenza e lanciando progetti, ma quel gruppo che avrebbe dovuto riunire gli sforzi e aiutare la sensibilizzazione sul tema pare oramai essere inattivo. Lo testimoniano anche i canali social della coalizione che dal 2015 sono fermi (la pagina Facebook è stata aggiornata l’ultima volta il 17 aprile del 2015, stessa cosa l’account Twitter).

La coalizione non c’è più, l’emergenza sì

Sul sito Internet si legge che la coalizione è attualmente composta da Intersos, Coopi, Save the Children Italia, Terre des Hommes Italia, Unicef Italia, Telefono Azzurro, Alisei, Cocis e Amnesty International. Stando al sito, sarebbe proprio Intersos a coordinare il gruppo curandone l’attività di segreteria dal 2013.

Prima di lei, l’incarico era stato ricoperto da Amnesty e Save the Children. Da Intersos, però, fanno sapere che, “dopo la scadenza del 2015”, il mandato non è mai stato rinnovato: “La coalizione è dormiente, nel senso che non si è mai più riunita, ma ogni organizzazione continua a fare i suoi progetti”.

Intersos, per esempio, in questo momento opera in Somalia: “Il fenomeno dei bambini soldati non è né scomparso né si è ridotto – commenta Giovanni Visone, responsabile della comunicazione della ong romana – Negli ultimi tempi abbiamo assistito all’aumento del numero di bambine di sesso femminile coinvolte nei conflitti”; il loro numero sfiorerebbe il 40% del totale.

Soltanto in Somalia i giovanissimi arruolati in guerra sono oltre duemila. “Prendere parte ai conflitti non significa soltanto imbracciare il fucile: spesso i bambini vengono arruolati forzatamente per fungere da spie, perché sono poco riconoscibili”.

Ma chi è un bambino soldato? Secondo la definizione, lo sono tutte le persone di età inferiore ai 18 anni che fanno parte di forze e gruppi armati, sia regolari che non. Prima del 2000, e cioè del Protocollo opzionale alla convenzione sui diritti dell’infanzia relativo al coinvolgimento in conflitti, il limite di età era più basso: 15 anni appena. Oggi, a livello mondiale, le stime del fenomeno parlano di 250 mila ragazzini coinvolti nelle guerre: “Sono usati come combattenti, messaggeri, spie, facchini, cuochi – riporta Amnesty – e le ragazze, in particolare, sono costrette a prestare servizi sessuali, privandole dei loro diritti e dell’infanzia”.

Yemen, Siria e gli altri Paesi coinvolti

Un bambino su cinque nel mondo vive in zone di guerra, segnala  Save the Children: nel 2017 erano “420 milioni in totale, un numero cresciuto di 30 milioni rispetto all’anno precedente e raddoppiato dalla fine della Guerra Fredda”.

Ragazzi e ragazze minorenni, a volte costretti a combattere – secondo l’Onu accade in 7 Paesi, Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Yemen – o a subire violenze sessuali; ma non sono solo questi i crimini commessi nei loro confronti: “Nel 2017 oltre 10 mila bambini sono morti in guerra o sono stati mutilati a causa dei bombardamenti – segnala l’ong internazionale – mentre almeno 100 mila neonati perdono la vita ogni anno per cause correlate ai conflitti, come malattie e malnutrizione”.

E poi rapimenti, attacchi in scuole e ospedali, aiuti umanitari che faticano ad arrivare a destinazione. Dalla Siria allo Yemen, passando per Afghanistan, Uganda e Giordania, la lista dei Paesi dove i bambini vivono faccia a faccia con la guerra è lunga.

C’è poi la questione degli ex bambini soldato, cioè in ragazzi che hanno combattuto e che vanno reinseriti nella società: un’impresa difficile, in cui si impegnano anche Unicef e Telefono Azzurro. “Noi abbiamo sempre cercato di affrontare il tema della guerra e dei bambini da un punto di vista mentale – spiega all’Agi il presidente di quest’ultima organizzazione, Ernesto Caffo – Abbiamo lavorato soprattutto in Libano, in Palestina e Israele, anche se il problema più grande viene percepito dalla zona del Centrafrica”.

Spesso il supporto si articola nell’accoglienza di minori nel nostro Paese: “Sono ragazzi giovanissimi, tra i nove e i tredici anni, che non di rado vengono usati anche come merce di scambio tra gruppi armati. Hanno vissuto e interiorizzato la violenza: sono complicati, ma seguirli rimane fondamentale”.  

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