Cronaca

Il nuovo allarme dei medici penitenziari su coronavirus, tubercolosi e Hiv

I medici penitenziari, dopo le rivolte di inizio marzo, tornano a lanciare l’allarme sulla situazione nelle carceri legata al rischio coronavirus e non solo. Le misure prese, come i casi sintomatici dei nuovi ingressi messi in isolamento, i colloqui in modalità telefonica o video e la limitazione di permessi e libertà vigilata, “si sono scontrate con una realtà non semplice”,  sottolinea il Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria – SIMSPe, Luciano Lucanìa.

“Gli istituti penitenziari italiani soffrono di problemi cronici che periodicamente vengono affrontati ma non del tutto risolti. Ad oggi rispetto all’effettiva capienza delle carceri, in grado di ospitare intorno ai 51 mila detenuti, i reclusi effettivi sono oltre 60 mila, di cui circa un terzo stranieri”. 

“Nel sistema carcere – aggiunge – ravviso molta buona volontà, ma assoluta mancanza di un piano organico condiviso per affrontare l’emergenza coronavirus, già assolutamente gravissima nel contesto nazionale per i suoi riflessi sulla salute generale e sull’economia. Nelle carceri potrebbe provocare una tragedia se vi fosse un impatto differente e di maggiore portata”.  

“Vi è una perdurante mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale – evidenzia Lucanìa. – Abbiamo fatto numerose segnalazioni: siamo certi che le nostre richieste verranno accolte, ma il problema è sovranazionale. Noi operatori della salute, medici e professionisti sanitari, abbiamo il mandato, che oggi diventa una missione, di tutelare la salute e la vita all’interno del sistema carcere, essendo operatori provenienti dalla sanità pubblica, dalle Aziende Sanitarie del Sistema Sanitario Nazionale. È dall’inizio di questa epidemia che per le carceri si susseguono lettere circolari dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed indicazioni più specificamente sanitarie provenienti dalle sanità regionali e dal Ministero della Salute”. 

Ad oggi tra i positivi al COVID-19, risulta un numero di 15 detenuti, mentre rimane non conosciuto tra gli operatori, fra cui poliziotti e operatori sanitari. “Il carcere è un servizio essenziale e le conseguenze dell’ingresso dell’infezione, anche in una singola sede, possono avere ripercussioni di estrema gravità, non solo per le persone, ma per l’intero sistema – afferma Lucanìa – Credo che dovremmo invocare un forte comportamento pro-attivo e, oltre alle comuni misure di pre-triage. Di concerto con la Sanità territoriale, dovremmo procedere con lo screening dei soggetti che quotidianamente fanno accesso alla struttura penitenziaria e hanno contatti con i detenuti, anche indirettamente”.

“Gli screening, nonostante la complessità ed i presumibili costi, devono realizzarsi mediante tamponi naso-faringei da ripetersi in maniera regolare, anche a cadenza settimanale, nelle aree che registrano le maggiori prevalenze di infezione. In questa fase, nell’attesa che le curve epidemiologiche evidenzino sostanziali fasi di regressione, un simile approccio è indispensabile. Inoltre, si devono sviluppare iniziative omogenee fra gli attori del sistema, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la sanità dei territori”.

Non solo Coronavirus, perché come emerso già nel Congresso SIMSPe di fine 2019, tra i detenuti continuano a prevalere patologie psichiatriche e infettive, la cui gestione e cura costituisce in larga parte l’attività di SIMSPe. La prevalenza di detenuti HIV positivi è discesa dal 8,1% del 2003 al 1,9% attuale.

“Questi dati – spiega Sergio Babudieri, Direttore Scientifico  SIMSPe – indicano chiaramente che, nonostante i comportamenti a rischio come lo scambio delle siringe ed i tatuaggi non siano diminuiti, la circolazione di HIV non avviene più perché assente dal sangue dei positivi in terapia antivirale. Questi farmaci non sono in grado di eradicare l’infezione ma solo di bloccarla. Di fatto con l’aderenza alle terapie viene impedita l’infezione di nuovi pazienti”.

Risulta poi dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia che un terzo della popolazione sia straniera, e, con il collasso di sistemi sanitari esteri, con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale.

Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie ne abbiamo rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera. 

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